Alzi la mano chi non ha mai intonato “Agnello di Dio” o “Signore, pietà”. Non occorre neppure nominarne l’autore, tutti conoscono quei canti. Sono composizioni di Luigi Picchi, ma molti lo ignorano. E’ forse il musicista sacro più eseguito dell’ultimo mezzo secolo. Non c’è Messa che non attinga alle sue melodie: parti fisse e mobili, formule salmodiche, brani di comunione e d’ingresso, inni per i defunti, antifone. Se anche all’interno delle sacre mura valessero i famigerati tariffari Siae, sarebbe stato uno degli uomini più ricchi d’Italia. Invece è morto nel 1970, quasi dimenticato. Come Palestrina fu il modello stilistico del Concilio di Trento, in un certo senso Picchi fu il campione musicale del Vaticano II. Le canzonette invecchiano, le chitarre imbiancano, i canti di Picchi rimangono, colmi di religioso mistero e di orante devozione. L’attesa d’Avvento è più dolce se intoniamo “Ti preghiam con viva fede”, un funerale è meno solenne senza le note di “L’eterno riposo”, all’Offertorio l’Altissimo pare gradisca “Signore, di spighe indori”: tutte creazioni di Luigi Picchi.
“Fu un servitore fedele – racconta il figlio Alessandro, organista del Duomo di Como, musicologo, ottant’anni portati con leggerezza – artista umile, uomo semplice, sincero, a tratti ingenuo. Autore popolare, non perché indulgesse a facilonerie o banalità, ma perché chiaro, scorrevole, immediato. Accettava le critiche, le commentava con umorismo; abilissimo improvvisatore, appassionato didatta, limpidezza di scrittura, estroversione, dominio formale. Nacque poeta, diventò oratore. Seguì la sua intima vocazione di compositore sacro, di educatore, d’infaticabile artigiano del pentagramma. Si prese carico di un’attività artistica che tutti deprezzavano, ritenendola di scarso rilievo, minore e accessoria rispetto alla normale carriera musicale fatta di concerti, lezioni private, insegnamento nei Conservatori. Accettò la contrazione delle proprie risorse linguistiche e tecniche in favore del servizio ai Santi Misteri. Sacrificò l’«io» per far emergere il «noi» della communio. Fu se stesso fino alla fine. Meglio: fu se stesso, ma più grande, più imponente, come se si servisse della propria debolezza per abbandonare tutto ciò che era inutile. Non amerebbe le mie parole: ha sempre detestato le celebrazioni. In un mondo in cui tutti sembrano volersi accalcare sulla ribalta, sotto i riflettori, anche solo per un istante, mio padre rimase sempre in disparte, vigile, curioso su tutto, guardando le cose con giusta ironia e profonda consapevolezza. Il nonno, in un pellegrinaggio a piedi al santuario di Caravaggio, formulò la preghiera che il piccolo Luigi potesse essere utile in qualche modo alla Chiesa. Posso dire che la richiesta è stata esaudita”.
L’allievo Felice Rainoldi, liturgista, teologo, maestro di Cappella, aggiunge: “Picchi fu un maestro nel senso nobile del termine. Ci abituò all’ascolto quotidiano, al confronto assiduo, alla costante disciplina di un paziente discepolato. Ci insegnò che il volo del canto, la danza dei ritmi, il calore contagioso delle forme nascono solo da una risurrezione. A precedere questo «venire alla luce» stanno ascesi e mortificazione. Ci ripeteva queste regole: «Riempite ogni giorno qualche pentagramma. Rielaborate, giudicate, abbiate il coraggio di buttare ciò che non va. Lo stile è un marchio personale e matura dentro un tessuto di relazioni: coltivatele ad ampio raggio». Quando il Concilio raccomandò l’attiva partecipazione dei fedeli all’azione liturgica, con l’uso nel rito della lingua italiana, Picchi non si fece cogliere di sorpresa: la stava sperimentando da alcuni decenni, in un fecondo rapporto di collaborazione con la diocesi di Lugano. Figura signorilmente eretta, occhi penetranti e luminosi, sempre paterno, fondatore della rivista «Laus decora». Ebbe il coraggio della gratuità. Mistico sorridente, amabile asceta, giocosamente ludico. In preghiera con i suoni, non esteta. Combattente innamorato e obbediente, mai soldato di ventura. In lui convivevano spirito e disciplina”.