Riposa in pace Carlissimo, grazie. Fioccano a centinaia sul web le condoglianze e gli omaggi dei fan. Carlo Curley, «il Pavarotti dell’organo», avrebbe compiuto sessant’anni il 24 agosto; è morto l’11 agosto, nella sua casa di Melton Mowbray in Inghilterra. Il primo organista a tenere un récital solistico alla Casa Bianca, sotto gli occhi esterrefatti, scintillanti e straniti di Jimmy Carter. L’esecutore preferito di nobili e potenti: tutta la famiglia reale britannica e quella di Danimarca, Sua Altezza Haakon di Svezia, la principessa Grace di Monaco, il Sultano di Oman (che gli aveva commissionato in privato alcune registrazioni), Sua Maestà Akihito Imperatore del Giappone, per dirne solo alcuni.



Nasce negli Stati Uniti, nel North Carolina, da genitori musicisti, incontra l’organista Virgil Fox che gli rivela la missione: se le folle non vanno allo strumento a canne, lo strumento a canne andrà nel mondo. Tutto è lecito, pur di attirare a sé le masse (e poi educarle, come faceva Liszt nel secolo precedente). Trascrizioni di ogni tipo – canzoni, ragtime, songs, operette, Wagner, Stravinsky, tanghi, brani orchestrali, musica da film – e brani classici; va bene perfino una tastierina elettronica. Uno dei pochi organisti al mondo non legato a una chiesa particolare, a insegnamenti fissi, a istituzioni blasonate. Ha strapazzato centinaia di strumenti in giro per il pianeta e li ha domati, ha mescolato Bach a «Oh, Susanna», Bing Crosby a Charles Widor.



Mai accademismo, museo, superiorità di alcun genere. Venite a me, e io vi ristorerò. Ne è nato uno strumento a colori, affascinante, magico. L’organo a 3D. L’orchestra in cantoria. Il suono del vento. La voce della fantasia. Colori squillanti, contrasti esagerati. Mai noia. Un modo di suonare improntato allo spettacolo, al divertimento, a volte anche all’eccesso; un infallibile senso del tempo unito a un rubato, come solo i migliori sanno fare; un mirabile gusto timbrico fuso a un’eleganza d’altri tempi.
Naturale che la critica fosse divisa: qualcuno lo considerava un volgare showman, chi lo ascoltava dal vivo lo amava immediatamente. Durante l’esecuzione di qualche «Voluntary» di Johan Stanley, sbucava dalle ante un uccellino meccanico a duettare con le sue note acute. Il «Largo» di Händel rombava come un’Harley-Davidson. Nelle sue Marce ti veniva voglia d’alzarti e metterti sull’attenti.



«Voglio colorare ogni frase come fanno Karajan e Richter – spiegava – Ogni organista con il suo strumento deve giocare, dirigere, cantare. Non bisogna far sentire che l’organo è una macchina: occorre respirare e pensare. Lasciatevi massaggiare le gambe dalle vibrazioni delle canne d’organo gravi, suvvia, non temete». 

Dotato di memoria prodigiosa, duecento chili di carne e musica. Barba e fisico a metà strada tra Porthos e Frà Tac, camicie a quadri da boscaiolo, vezzosi farfallini su frac impeccabili. Guascone, romantico, imperiale, tenero. 

«Un testimone importante di quello stile tardo romantico inglese – secondo Eugenio Maria Fagiani, organista bergamasco che lo conosceva bene – erede diretto di un’antica scuola organistica che da Best e Lemare arriva fino a Virgil Fox. Lontano da ogni specialismo, cricca, rigor mortis. Ha avvicinato all’organo un pubblico vastissimo con intelligenza e simpatia».