Attenti a quel corsaro, attenti allo scozzese che ha deciso di compiere l’impresa da quel dì del 2007. Di avventurarsi nella traversata alla volta di quel pericoloso sentiero senza ritorno, quello del britannico colluso e compromesso a tal punto con le storie di persecuzione, carestia e trasmigrazione dei vicini irlandesi verso l’east coast americana da esserne in primis interessato, poi coinvolto in misura sempre maggiore (il viaggio dentro storie e personaggi dell’esodo in “Kill to Get Crimson” e “Get Lucky”, due dischi uno più bello dell’altro), infine afferrato a vita come solo la propria amata sa fare quando si espone e ti fa le pulci ormai non più disposta ad accontentarsi di qualcosa di meno del grande sì per l’eternità. Di qualcosa di meno di quel patto che segna il passaggio definitivo dal rango di cultore delle note d’America allo status di americano ipotetico, forse adottivo o forse figlio geniale e illegittimo di quello straordinario intrigo di razze e tradizioni.
Chitarrista tra i più grandi e innovativi degli ultimi trent’anni, sperimentatore con i Dire Straits di nuove fusioni e confusioni tra west coast e eleganza lessicale del sound nord europeo, ha mantenuto anche dopo lo strano matrimonio di cui si è detto quella personale indole sonora forbita e densa rendendola sempre più funzionale al respiro della musica nata da quella simbiosi tra i rispettivi patrimoni popolari.
Se di matrimonio si è trattato non è stato certo quello deciso in virtù di un conto aritmetico che mettesse d’accordo il proprio slancio con un obiettivo individuato e privo di ostacoli, ma quello generato da un vero e proprio scontro frontale con quel mondo sorprendendovi un’autocoscienza del tutto diversa da quella levigata e tiepida che si è soliti cucirsi addosso.
Ecco allora nel nuovo album “Privateering” una galleria di racconti, esistenze e individui che riflette pene, speranze e malinconie di quella grande traversata, di quel rischio senza precedenti, di quel ripartire dal fondo o forse dagli inferi di vite scaraventate senza rete nella promessa di quel mondo.
“Redbud Tree” è il test del respiro drammatico che scandisce tempi ed evoluzioni del disco. La storia di una fuga che potrebbe essere quella da una semplice resa dei conti tra cowboys o da una guerra, uno slow tempo classico nella sua produzione ma che ne rinnova toni e colori rendendo ragione di un persistere di malinconie. “Haul Away” è la nuova partenza da scorci di paesaggio irlandese ancora inesitati nella sottile e sfuggente relazione con i luoghi di emigrazione.
“Privateering” svela una tensione al perfezionamento dell’archetipo della spigliata folk ballad a venature bluegrass/bluesy, come “Corned Beef City” è la figurazione aggiornata e rapace dell’estro r’n’r di “Walk of Life”.
Certo in un album che conta la bellezza di venti canzoni il rischio di inevitabili sedentarietà non è scongiurato e nondimeno è gestito con certa consumata astuzia. Cinque canzoni sono forse state strappate al recinto delle riserve, quasi ideali b-sides del defunto supporto singolo. E’ il caso della piccola schiera di rock-blues allegrotti, sgambettanti e un po’convenzionali di “Don’t Forget Your Hat”, “Hot or What”, “Got To Have Something” “I Use to Could” e “Today is Okay” ma può essere almeno in parte compreso il diritto del chitarrista scozzese a concedersi alcune fasi di rilassatezza in mezzo a un cammino smoderatamente irrequieto e scosceso, quasi come si trattasse di break che l’eroe della saga western si concede tra feste e saloon.
La sezione finale del primo disco e gran parte del secondo sono l’annuncio di un’apoteosi. Qui si svela il vasto lascito popolare americano e le sue declinazioni sempre più ardite e sfaccettate nell’ampia gamma della miscela musicale di Knopfler.
Nel cuore del primo disco ci si imbatte così nella tempra epic-slow di “Go, Love” e nel ricco tratto pensoso di “Yon Two Crows”. La scrittura grave e precisa, l’arrangiamento certosino, l’impasto strumentale, il senso dei tempi drammatici confermano e ridefiniscono l’irruenza e il dinamismo dello splendido “Get Lucky” scorgendovi ulteriori fondali sonori.
“Kingdom of Gold” è la messa in scena su intermezzi celtici in penombra di una storia che fotografa in una sola istantanea una desolazione di umanità e un profondo senso di mancanza, con voci maschili e femminili in lontananza (Rupert Gregson-Williams e la folk singer Ruth Moody) a centrare la scena di un’aria che registra impietosamente recessi e illusioni a cavallo delle varie epoche.
“Radio City Serenade” riunisce preludi da jazz serenade, passi di folk ballad e ascensioni morriconiane in un memorabile tema ad incastro giocato tra piano, tromba e archi, che anticipano quello che con “Dream of the Drowned Submariner” è un autentico tripudio di strati e substrati sonori, finezze arrangiative e un bolero conclusivo che vede su uno struggente disegno melodico di clarino Knopfler a giocare di gran gusto con l’elettrica in contrappunto. La storia che vi si narra è una sbalorditiva e impossibile chimera di un defunto, un marinaio di un sottomarino affondato dal nemico che sogna di riabbracciare la figlia.
In chiusura “After The Beanstalk” sforbiciante e agile street-folk che vede il nostro protendersi alla riconquista di antichi sogni roots tra sentieri che incrociano i Johnson e gli Atkins sulle vie maestre che si snodano tra Mississippi e New Orleans.
Knopfler è così, è quella tensione che non cala mai, è oltre il saggio proposito, è l’anima ribollente e insanguinata del corsaro che sogna di ritrovare alla fine della strada niente di meno di un affetto sterminato, niente di meno della musica come memoria permanente. Ma non una musica qualsiasi o un cinguettare di note come un altro, non un ensemble di strumenti intercambiabili. Una cornamusa per suonare e celebrare quella grande memoria.