Se è vero che parlare di musica è come ballare d’architettura (copyright Frank Zappa), allora conviene evitare d’inseguire le imprendibili note di Glenn Gould, pianista canadese di cui ricorre il doppio anniversario, ottant’anni dalla nascita (25 settembre) e trenta dalla morte (4 ottobre). Meglio assecondarne il mondo alla rovescia, ricco di paradossi, zampillante di ossimori. Madamina, il catalogo (parziale) è questo: showman solitario, triste bagatto, asociale prestigiatore, alchimista vibrante, mistico impasticcato, umoristico asceta, star radicale, tagliente camaleonte, canticchiante perfezionista, giocoliere timido.
Super virtuoso? «Non suono con le dita ma con la testa». Genio? «Ecco una definizione veramente ripugnante». L’11 gennaio 1955 tiene un récital alla Town Hall di New York. Soltanto trentacinque spettatori, piuttosto perplessi. Un programma atipico, con musiche di Gibbons, Sweelinck, Berg, Webern. Tra gli ascoltatori c’è David Oppenheim, direttore della Columbia Records, che gli propone subito di incidere un disco; l’ordine naturale delle cose prevede prima esibizioni con pubblico in delirio, poi recensioni entusiaste, fitto battage pubblicitario, infine la registrazione. Gould sceglie le «Variazioni Goldberg» di Bach; un pianista normale sarebbe partito da Mozart, Chopin, Schubert, Schumann; ma Gould odia l’eterno presente di Mozart, Chopin lo mette a disagio, Schubert lo annoia, evita Schumann come la peste, e «la musica per pianoforte non m’interessa». (Tra l’altro, le Goldberg sono state appena incise da Wanda Landowska e da Rosalyn Tureck).
Il classico corso degli studi musicali mette in fila Conservatorio, diploma, corsi di perfezionamento, Concorsi; Gould prende lezioni dalla mamma, studiacchia con un oscuro pianista cileno, si forma da autodidatta, sfugge qualsiasi competizione. I divi del palcoscenico annunciano ai quattro venti il loro addio alle scene, lo preparano da lontano con squilli di tromba, proclami, anticipazioni mediatiche; quando il 10 aprile 1964 termina l’esibizione di Gould al Wilshire Ebell Theater di Los Angeles, nessuno sa che quello è il suo ultimo concerto. Ha trentadue anni.
Non rilascia dichiarazioni ufficiali. Critici e pubblico se ne accorgeranno solo dopo. Non riuscendo a ottenere sul palcoscenico verità, esattezza, armonia, le persegue all’interno di uno studio di registrazione. Realizza fino a quindici versioni differenti di molti brani. Ognuna perfetta, ognuna diversa. Il concerto è rito, il solista lo celebra; Gould indossa invece guanti e camice dell’anatomopatologo: taglie e incolla, seziona e ricuce, smonta e rimonta nastri, tracce, bobine. Tutti lo vogliono? «Detesto il pubblico, non in quanto singola persona ma come fenomeno di massa. E’ una forza del male e io mi rifiuto di sottostare alle sue leggi».
Il mondo entra nell’era dodecafonica? Gould esalta il sopravvissuto Richard Strauss, Ernst Křenek, William Byrd. «Torna sulle scene, ti preghiamo», lo invocano: «Sono sempre andato pazzo per i cani e per ogni specie di animale (tranne l’uomo)». Nel testamento lascia metà dei suoi beni alla lega antivivisezione, il resto all’Esercito per la salvezza. Per lo specialista bachiano Ramin Bahrami «Gould è uno dei grandi maestri del tocco, capace di simbiosi totale con la musica. Non amo sempre la scelta dei tempi e qualche articolazione esagerata e arbitraria, ma si tratta sempre di provocazioni da genio». «Fu uno spirito tormentato, un’anima patologica – dice il pianista bresciano Federico Colli – ciò che non mi piace di lui, ciò che mi pare inascoltabile, impensabile, ebbene, questa è “musica che non mi ama”. Gould poteva permetterselo: ogni suo gesto era regolato da una coerenza olimpica».
Così lo giudica il nostro Massimiliano Motterle: «La sua grandezza è stata capire prima di tutti che le interpretazioni bachiane di Rosalyn Tureck erano davvero straordinarie». Puntualizza Roberto Prosseda: «La sua forza sta nel rivivere la musica con una prorompente, vitale energia, che lui scova nella polifonia delle partiture. Un moderno nell’accezione migliore del termine e un grande divulgatore. A volte sacrifica le ragioni del cuore a quelle dell’intelletto; la sua visione tende a trascurare principi basilari di fraseggio e di morbidezza timbrica». Gli fa eco Piero Rattalino: «Gould sembra aver orrore di una bellezza carnale cui in cuor suo agogna». Risponde Glenn in persona: «Non mi possiedo abbastanza per appartenere con certezza all’assoluto e per avanzare senza esitazioni verso il silenzio dell’essere». Buon viaggio, maestro.