Tra gli album di Springsteen che negli ultimi anni hanno goduto di ricche edizioni celebrative per il loro trentennale hanno già trovato posto “Born to run” (2005) e “Darkness on the edge of town” (2010). Sono molti a scommettere che i prossimi saranno “The river” (anche se il trentennale è caduto due anni fa) e “Born in the USA” (si farebbe in tempo per il 2014). 



Quasi sicuramente “Tunnel of love” non sarà della partita. Criticato da parecchi dei fan storici all’indomani della sua uscita, questo disco è stato sempre più snobbato nel corso degli anni, nonostante contenesse un singolo di discreto successo come “Brilliant Disguise”. 

Eppure, ora che è da poco trascorso il venticinquesimo anniversario della pubblicazione (uscì infatti nell’agosto del 1987), potrebbe valere la pena riscoprire un episodio che solo apparentemente può essere definito minore, all’interno del vasto catalogo springsteeniano. Christopher Sandford, che ha scritto una delle più complete biografie dell’artista del New Jersey attualmente in circolazione, lo ha definito addirittura il suo capolavoro. E’ un giudizio controcorrente, che non è stato ripreso da nessun altro, ma che non è così campato per aria come si potrebbe pensare. 



“Tunnel of love” prende forma all’indomani del tour di “Born in the USA”, che aveva consacrato Bruce Springsteen come uno dei più importanti rocker di tutti i tempi, ma che lo aveva lasciato stanco e letteralmente svuotato. “Il successo di Born in the USA mi inquietava – dirà lui stesso anni dopo – Mi ritrovavo in una situazione in cui il mito del successo era così potente da schiacciare la storia che credevo di star raccontando. Durante quel periodo mi sentivo falso, depresso, come se tutto pesasse sulle mie spalle. A quanto pareva mi ero sbagliato. Avevo sempre creduto che il rock n’ roll avrebbe potuto salvarci. E invece non lo fa, non lo farà. Perché non può. Da giovane mi sentivo escluso dalla comunità, avrei voluto sentire che la gente mi si stringeva attorno… credevo che diventando un musicista ci sarei arrivato. Invece era accaduto il contrario: la comunità si era stretta sì, ma attorno alla mia musica, e io ero rimasto ancora una volta escluso.” 



Questa situazione era aggravata dal progressivo logoramento del suo matrimonio con l’attrice Julianne Philips, conosciuta e sposata poco prima dell’inizio del tour. Era stata una scelta impulsiva e molto azzardata, dovuta al bisogno di un legame affettivo stabile, più che dalla consapevolezza di aver trovato l’anima gemella. La Philips, di famiglia benestante, cresciuta in mezzo a comodità di ogni genere, totalmente dedita al proprio lavoro e per nulla intenzionata ad avere figli, era forse la donna meno adatta per un uomo che si sentiva sempre meno a suo agio nei panni della rock star e sognava di normalizzare il più possibile la propria esistenza. 

C’è una foto, proprio al centro del booklet del cd, che lo ritrae seduto ad una scrivania, con in braccio una chitarra acustica. E’ un’immagine che fotografa piuttosto fedelmente l’atmosfera e il mood di quel nuovo lavoro. Tanto “Born in the USA” era rumoroso, carico, sovrabbondante, talvolta un po’ pacchiano, quanto il suo successore suonava scarno, sottile e minimale. Per la prima volta dall’esordio la E Street Band fu lasciata quasi del tutto fuori, con i suoi componenti impiegati saltuariamente in alcuni brani. Per il resto, Springsteen fece tutto da solo, suonando, oltre alla chitarra, anche pianoforte, armonica e tastiere. Il risultato fu che “Tunnel of love” sembrava molto più il disco di un cantautore, piuttosto che del leader di una band rock. Comprensibile che queste canzoni talora folk, talora pop, riuscissero nell’intento di spiazzare chi si era abituato all’icona del musicista in maglietta, jeans e bandana che la tournée appena trascorsa aveva contribuito a sdoganare. 

Pochi si accorsero dunque che il disco era non solo un tentativo di spogliarsi di un’iconografia troppo velocemente inflazionata ma soprattutto un forte grido di aiuto da parte di un uomo che, diventato l’oggetto dell’adorazione di milioni di persone, non era per questo riuscito a destreggiarsi nelle complicate dinamiche della vita. Il “tunnel dell’amore” del titolo rimane qui una giostra da Luna Park ma si carica oscurità e angoscia: i due innamorati della canzone ci vanno insieme, ma al momento di strappare il biglietto si rendono conto che il viaggio non sarà piacevole (“Poi le luci si spengono e rimaniamo soltanto in tre: tu, io e tutto ciò di cui abbiamo paura”). Un pezzo allegro e trascinante, ideale per aprire i nuovi spettacoli, a cui sono tuttavia affidati interrogativi pesanti sulla natura del rapporto di coppia: “Dovrebbe essere facile, dovrebbe essere abbastanza semplice: un uomo incontra una donna e i due si innamorano. Ma la casa è abitata dagli spettri e la corsa si fa dura e devi imparare a vivere con quello che non puoi superare, se vuoi percorrere fino in fondo questo tunnel dell’amore.”

“Ain’t got you”, che sembra quasi uno scherzo per armonica e chitarra, non potrebbe essere più esplicita come dichiarazione d’intenti: “Ho le fortune del paradiso in diamanti e oro, posseggo, bambina, tutte le obbligazioni che una banca può tenere. Ho case sparse da una parte all’altra del paese e tutti vogliono essere miei amici. Bene, ho tutte le ricchezze che un uomo possa immaginare, bambina. Ma l’unica cosa che non ho sei tu.” Per una volta l’autore della canzone e l’io narrante coincidevano. Alle prese con un matrimonio in crisi, le domande sull’amore, sulla fedeltà, su ciò che serve per tenere in piedi una relazione, dovevano probabilmente fioccare a raffica nella sua testa. “Brilliant Disguise”, il singolo di maggior successo dell’album, un brano dal forte sapore pop in cui i sintetizzatori per la prima volta comparivano in primo piano, esprime l’angoscia che deriva dal rendersi conto che la persona amata non è quella che ci immagineremmo: “Ti stringo tra le mie braccia mentre la band suona. Cosa sono, piccola, queste parole sussurrate mentre ti giri? Ti ho vista la notte scorsa ai margini della città, voglio leggere nella tua mente solo per sapere qual è la mia parte in questa nuova cosa che ho trovato.

Così dimmi cosa vedo quando guardo nei tuoi occhi: sei tu, piccola, o è solo un brillante travestimento?” E’ una domanda quasi ossessiva, ripetuta alla fine di ogni strofa, che esprime, più che la fragilità di un legame, l’insicurezza di chi canta: egli non è sicuro della donna che ama perché non è sicuro di sé stesso. “Ci ho provato in tutti i modi ma non riesco a capire che cosa una come te ci faccia con uno come me”, dirà verso la fine del pezzo. E’ una situazione che si ripropone in “One step up”, uno degli episodi maggiormente acustici del disco. Qui Springsteen utilizza immagini quotidiane, elementi comuni del paesaggio urbano che si caricano però di un forte valore metaforico: Un uccellino che non canta, le campane della chiesa che non suonano una stufa che non funziona e una macchina che non si mette in moto. Tutto contribuisce a tratteggiare la figura di un uomo che è incapace di andare avanti (“un passo avanti e due indietro”, come canta nel ritornello). E in “Two Faces” sembra insistere sull’ambiguità insita in ogni essere umano, come se ci fosse qualcosa in ciascuno di noi che ci spinge a fare il male, anche quando non lo vorremmo: “Ho conosciuto una ragazza e siamo fuggiti via. Ho giurato che l’avrei fatta felice ogni giorno. E come l’ho fatta piangere! A volte mi sento raggiante e selvaggio, come amo vedere la mia piccola che sorride! Poi arrivano nuvole nere ad avvolgere tutto. Ho due facce, una che ride e una che piange, una che dice ciao e una che dice addio.” 

Ma non ci sono solo sofferenze personali in questo disco. L’atmosfera più raccolta contribuisce alla nascita di canzoni folk sullo stile di “Nebraska”, che raccontano vere e proprie storie, anche se molto meno cupe di quelle di quel disco. Particolarmente riuscita è “Cautious Man”. E’ la storia di Bill, un uomo che “quando qualcosa catturava il suo sguardo giudicava le sue necessità e poi procedeva con estrema cautela.” Un uomo che “sulla sua mano destra aveva tatuata la parola amore e sulla sinistra la parola paura. E non fu mai chiaro in quale mano lui reggesse il suo destino.” Un giorno Bill incontra una ragazza, se ne innamora e questo fa sì che abbandoni la sua cautela. Trascorrono felicemente gli anni ma Bill “da solo, in ginocchio nel buio, pregava invocando la serenità, perché sapeva che in un cuore inquieto giacciono i semi del tradimento.” E’ una storia e il suo finale non è semplice da interpretare, sospeso com’è tra l’incubo che Bill ha nella penultima strofa e l’immagine finale della moglie che dorme nel suo letto. Tuttavia, non sono pochi gli indizi che ci portano a pensare che i veri protagonisti siano in realtà lui e la Philips. 

Ci sono anche inaspettate dosi di luce tuttavia. “Tougher than the rest”, che arriva per seconda in scaletta, è una romantica ballata scandita da una inusuale batteria elettronica e nella quale sono le tastiere a fare la parte del leone. Bruce stesso dirà di essersi ispirato agli Everly Brothers nella composizione ed effettivamente si tratta di un episodio inusuale per il suo songwriting. La melodia vocale è in ogni caso davvero efficace e alla fine risulterà uno degli highlight dell’intero lavoro. Qui si rivolge all’amata in maniera sicura e virile, affermando senza mezzi termini che “se sei forte abbastanza per l’amore, bene dolcezza, io sono più forte degli altri”. Dal vivo, il pezzo venne trasformato in un romantico duetto con Patti Scialfa, corista della band sin dai tempi del tour precedente, e fu allora che il mondo si rese conto che forse il buon Bruce aveva già trovato chi poteva lenire le sue pene amorose. Fu in effetti quel tour, l’ultimo con la E Street Band prima della reunion del 1999, che diede modo alla coppia di rendere pubblico il loro amore e, di fatto, aprì per lui quella che in tutto e per tutto può essere considerata una nuova fase esistenziale ed artistica. 

Una fase che, per iniziare, aveva però bisogno di chiudere la tormentata pagina dei rapporti col padre. Douglas Springsteen aveva sempre avuto un rapporto fortemente conflittuale col figlio, che da parte sua lo aveva omaggiato con canzoni non propriamente tenere come “Adam raised a Cain” o “Independence Day”. “Walk like a man” arriva sette anni dopo quell’ultima prova, ed è una ballata intensissima e commovente, carica di una consapevolezza verso i drammi e i sacrifici del genitore, che sola è in grado di penetrare la scorza delle incomprensioni per arrivare ad abbracciare quell’uomo che, dopo tutto, gli ha dato la possibilità di realizzare il sogno di vivere della propria musica: “Ora gli anni sono passati e sono cresciuto da quel seme che hai piantato e non credevo che ci sarebbero stati così tanti passi che avrei dovuto imparare a fare da solo. Io ero giovane e non sapevo cosa fare quando vedevo che ti venivano rubati i tuoi passi migliori. Ora farò quello che posso: camminerò come un uomo e continuerò a camminare.” 

Un disco eccellente, in poche parole. Magari non sempre riuscitissimo musicalmente (anche se a conti fatti di pezzi poco efficaci c’è la sola “All the heaven will allow”), contiene una carrellata di testi che sono decisamente di livello assoluto, ben al di sopra delle pur ottime prove offerte nei dischi più celebri. 

 

Il tour che seguì al disco fu l’occasione per mostrare uno Springsteen dall’immagine meno “macho” e più romantica e guascona ma fu anche l’ultimo per la E Street Band. Di lì a pochi anni ci sarebbero stati il matrimonio con Patti Scialfa, il trasferimento in California, la nascita del primo figlio e l’accoppiata “Human Touch”/Lucky Town; due dischi che non potevano certo essere considerati dei capolavori ma che avevano se non altro il merito di presentare per la prima volta un uomo che adesso era prima di tutto un marito e un padre di famiglia e solo in un secondo momento una rock star. 

Purtroppo per le canzoni di “Tunnel of love” ci sarebbe stato sempre meno spazio: solamente la title track, “Brilliant Disguise” e “Tougher than the rest” furono suonate qualche volta con la E Street Band a partire dal 1999. Curiosamente, il tour del 2005, quando Springsteen si esibì da solo sul palco, fu l’occasione per rispolverare uno ad uno i brani di quell’album e valorizzarli una volta per tutte nella loro veste cantautorale. Ci sarebbe veramente da augurarsi che venga data una seconda chance a questo disco, fondamentale tassello nel percorso che ha portato Bruce Springsteen a calcare i palchi di tutto il mondo con una freschezza ed una serenità invidiabile, anche oggi che ha 63 anni suonati. 

(Luca Franceschini)