Da un ventennio almeno a questa parte gran parte dei dischi migliori li fanno le donne. In un ambiente fortemente maschilista come è quello della musica rock, le donne hanno sempre dovuto farsi largo a spallate, e quando sono riuscite a farcela era perché “sembravano degli uomini che facevano rock”, anche se loro ovviamente non volevano fosse così. E’ il caso delle prime eroine del genere, Janis Joplin, Grace Slick, Patti Smith. Qualche eccezione ovviamente, grazie a spiriti tutti femminili come Joni Mitchell o Sandy Denny che hanno rivendicato con forza la loro identità. Poi, dalla metà degli anni 90, è stata una esplosione: troppe per citarle tutte, con una capacità espressiva che ha fatto a pezzi tanti maschietti. Si sono imposte come era giusto che fosse, capaci di prendersi lo spazio che meritavano, perché da sempre le donne sono quelle che soffrono di più, e quindi hanno più cose da raccontare, e lo sanno fare con una grazia. con una urgenza e una sincerità che incantano e travolgono.



Tra queste, due donne di età, storie e generazioni diverse, pubblicano in questi giorni i loro nuovi dischi. Diverse, ma uguali. Il diavolo e l’acqua santa, verrebbe da dire a una prima immagine superficiale. La prima, Rickie Lee Jones, sulle scene dalla fine degli anni 70; la seconda dall’inizio dei 90. La prima, sopravvissuta a ogni genere di decadenza e vizio: sedotta e abbandonata da Tom Waits, protagonisti insieme ad altri balordi della vita bohémienne del Sunset Strip d L.A., lasciata come fa ogni buon maschietto quando le cose si fanno troppo complicate all’alcol e all’eroina. Da cui è uscita con difficoltà, grazie alle sue sole forze. La seconda, Beth Orton, esplosa improvvisamente dalla scena dei club dance inglesi grazie all’amicizia con “quelli che contano” di quella scena, William Orbit e i Chemical Brothers, che la lanciano come la novità: la folktronica, folk più elettronica. Lei non ha bisogno di scene per affermarsi: una delle voci più ammalianti di sempre, tenera e sofferente, capace di esprimere il dolore anche di una condizione segnata dal lutto familiare e dalla malattia, riesce a imporsi grazie alle sue canzoni che riportano di schianto alla magia del folk inglese dei primi anni 70, solo più moderne. Sei anni fa sparisce dalle scene: aspetta un figlio, e un figlio è più importante di qualunque altra cosa. Adesso che quella figliola è cresciuta, eccola di nuovo.



Los Angeles boulevard e i club di Londra: che c’entrano? C’entrano, nella storia di due donne forti, coraggiose, belle e indipendenti, capaci di raccontare la propria femminilità come poche. E’ la musica, la grande musica, che può mettere insieme di tutto, a dispetto delle apparenze. Per Rickie Lee Jones si tratta di un disco di cover, “The Devil You Know”: non è la prima volta che si cimenta con il repertorio altrui, ma questo nuovo cd rischia di diventare, dopo il suo album di esordio, il suo lavoro più bello di sempre. E’ una confessione di una nudità imbarazzante, è il diavolo che l’ha presa per tanta della sua vita, un disco che mette a dura prova l’ascoltatore nel calarsi in tanta privacy. Ne saremo autorizzati?  Qua c’è tutta la sua vita, dal dolore più travolgente alla resurrezione. Il che significa iniziare il disco con una Sympathy for the Devil che è quasi fastidioso ascoltare. Rickie Lee canta questa canzone, che è la confessione del diavolo che si presenta nelle nostre vite quotidiane, con una voce rivoltata e rivoltante: è Lucifero quello che si esprime attraverso di lei, è una voce contorta e abbruttita. E’ la voce del male e lei lo conosce bene.



Finisce, questo disco e questa confessione, con l’innocenza e la bellezza trascendente di Catch the Winddi Donovan, apparentemente agli antipodi di una come lei. Invece è la prova che nella vita si può ricominciare, basta affidarsi a un altro e ammettere la propria inadeguatezza: “Quando la pioggia ha lavato le foglie con le lacrime, ti voglio vicino a uccidere le mie paure, ad aiutarmi a lasciare tutti i miei blues indietro, essere nel tuo cuore è dove voglio essere, e desidero essere, ma è impossibile come cercare di catturare il vento”. In mezzo, una manciata di canzoni reinterpretate meravigliosamente, solo voce, chitarra acustica, qualche tocco di pianoforte o violoncello e poco altro (produce Ben Harper che impreziosisce tutto con il suo tocco di chitarrista sopraffino): Only Love Can Break your Heart di Neil Young, Masterpiece dello stesso Harper, The Weight di The Band che da orgoglioso inno hippie – era nella colonna sonora di Easy Rider, 1969 – diventa dolente canzone della sconfitta, St. James Infirmary, l’ospedale psichiatrico di New Orleans reso famoso da Louis Armstrong, Reason to Believe di Tim Hardin,Play with Fire ancora degli Stones. Da ascoltare rigorosamente in cuffia, per farsi sopraffare dall’intimità della sua voce che sussurra una vita intera e la si sente anche commentare tra se tra una strofa e l’altra, rapita lei stessa dalla magia di quello che si sta comunicando attraverso di lei.

Stessa cosa succede con Beth Orton, seppure a latitudini musicali diverse. Con un disco, “Sugaring Season”, che si riallaccia con impeto alla grande stagione di Pentangle, Tim Buckley, John Renbourn e cioè quella collisione tra folk e jazz che lasciò a bocca aperta una generazione, la cantante inglese lascia storditi dalla maturità raggiunta. La voce, capace ancora di comunicare malinconia e senso di perdita, si è fatta esuberante e annerita come mai prima. In questo quadro, un pezzo come la pianistica Last Leaves of Autumn si erge come una delle più belle e toccanti composizioni mai giunte dall’universo femminile. Pianoforte, voce evocativa, ambientazione sonora tra Laura Nyro e Sandy Denny, apertura orchestrale: siamo davanti a una esplosione di potenza musicale da lasciare attoniti. Se Last Leaves of Autumn è pezzo di classe sopraffina, nell’iniziale Magpie, Beth Orton si lascia andare a un tour de force vocale e strumentale che ai più attenti dei suoi ascoltatori ricorderà pagine antiche come The Best Bit, mentre Candles è una delle sue classiche ballate dove magia ed evocazione sono un tutt’uno. Così è Poison Tree, un’alba misterica da qualche parte a Stonehenge. 

D’altro canto è lei stessa a spiegare che questi brani sono nati di notte, “quando i ragni tessono le loro ragnatele con un bambino appena nato che dormiva nella stanza accanto”. Il risultato, aggiunge, è che il suo modo di scrivere è tornato ad essere di nuovo un segreto: illecito e del tutto personale. Come deve essere la grande musica, aggiungiamo noi. C’è anche tempo per un piccolo vaudeville show, la deliziosa e pianistica See Through Blue che sarebbe stata benissimo dentro a una cartolina da una Inghilterra antica e magica che non esiste più, eppure da ricordare. Fanno la differenza in questa turbinio di colori sonori accompagnatori come l’eccellente batterista jazz Brian Blade e il chitarrista Marc Ribot, noto per i tanti anni passati insieme a Tom Waits. In “Sugaring Season” c’è una donna, anche qui capace di mettersi a nudo totalmente, lasciando risplendere la sua femminilità, tanto da chiudere il disco con il mistero della vita che nasce: la dolcissima Mystery è infatti dedicata alla bambina che l’ha tenuta impegnata per sei anni. E come nelle storie migliori, la nascita di una vita nuova ha portato alla rinascita di una vita che già c’era. Rickie Lee Jones e Beth Orton: il coraggio di essere donne.