Sixpence None The Richer. Band di corpi e anime sperdute e perdenti, quasi un paradigma di irricevibilità umana dei nostri tempi, una comitiva di marginali neppure aggrappati alla moderna e ben remunerativa panacea dello status di maledetti e girovaghi proprio di certe icone del rock.
Il cuore del gruppo è da sempre rappresentato dal compositore/chitarrista Matt Slocum e dalla cantante Leigh Bingham Nash, perdenti sin nei presupposti che nei fugaci esiti di popolarità che li hanno investiti. Ragazzi texani trapiantati a Nashville balzano agli onori delle cronache intercontinentali nel lontano 1998 con “Kiss Me” canzone gradevole non senza gusto, uno di quei successi che si pagano a caro prezzo, un mordi e fuggi nel mondo dorato e provvisorio della teen-fiction (figura in alcuni episodi di “Dawson Creek” autentico cult di settore), apriscatole che poi viene usato contro chi ne ha beneficiato per sfregiarne sembianze, intima natura e unicità.
Si aggiunga il portamento di Leigh Nash. Bionda esile, soave, tipica next door girl di buona famiglia, voce che richiama una duratura linfa adolescenziale che quasi sembra accomunarla (a torto) alla irritante estemporaneità delle starlette del lolli-pop. Ciliegina sulla torta il loro status riconosciuto e mai rinnegato di Christian rock band suggellato da una partecipazione al completo al David Letterman show e tanto di intervista rilasciata dalla Nash nel corso del famoso talk nazionale americano con il celebre anchorman che si mostra quasi protettivo al cospetto della dolce timidezza della bella singer.
In quello stesso contesto la Nash chiarisce l’origine del nome della band (liberamente “sei centesimi non ti rendono più ricco”), perfetto per un ensemble di esemplari umani fuori dal giro. Il referente è una raccolta di scritti di C.S. Lewis “Sul cristianesimo così com’è” (“Mere Christianity”) nel cui cuore l’autore contrappone l’insufficienza di qualsiasi entità venale disponibile alla vicenda della fede che Dio ha concesso a lui e ad altri come dono da usare con profonda umiltà e coscienza della portata di quanto ricevuto.
Umiltà decisiva per la stigmate sonora dei nostri, genuini e curiosi esploratori formati sul patrimonio lasciato in una ideale soffitta dei tesori perduti da antecedenti più o meno longevi, più o meno fortunati come 10.000 Maniacs e The Sundays. L’eredità del college rock, i sixties rivisitati e venuti a seconda vita con la presa e l’agilità del jingle-jangle, le prospettive di quel sound verso un allargamento dello spettro sonoro, partoriscono questo ensemble talentuoso e misconosciuto.
Album come “This Beautiful Mess” (1995), il famoso eponimo del 1997 (quello di “Kiss Me”), “Divine Discontent” (2002) e infine “The Best of” (2004) – grazie alla penna fertile di Slocum – esibiscono brani di grande impatto elegiaco come l’evocativa “Within a Room Somewhere”, una splendida song di matrice folk densa di arrangiamenti e florilegi beatlesiani come”Anything”, la straripante e contagiosa versione di “There She Goes” (cover dei La’s), fino alla dilagante, lunga e onirica “Too Far Gone”.
A seguire beghe discografiche, l’inevitabile scioglimento e il paziente sentiero verso un ritorno lungo cinque anni. La band ormai vaccinata e inaffondabile procede per la sua strada cosciente di non poter accantonare il frutto di una ispirazione sovrabbondante che fa di questo “Lost in Transition” (quasi un’ironia dolceamara a sottolineare le ulteriori vicissitudini) il miglior album di una carriera. Un album che mi azzarderei a definire disco dell’anno 2012.
Un lavoro di grandissimo livello, teso e vario, conciso ed estremamente fluido per risoluta schiettezza della trama melodico-armonica. Uno sfavillante e puro concentrato di pop-rock pregno di spunti d’autore e forza interpretativa. Un canto sempre più maturo e coinvolgente di Leigh Nash supportato a dovere dall’inventiva e dagli arrangiamenti di un Matt Slocum se possibile ancora più geniale e calibrato nella vestizione sonora di una scrittura classica e innovativa ad un tempo.
La stessa Nash – ben lontana dalla languida estemporaneità del suo “Blue on Blue” del 2006 – si svela autrice di gran livello grazie al virtuoso e perdurante sodalizio con l’amico di sempre. Il tutto incorniciato da liriche che mettono in scena in modo preciso e scarno la dura peregrinazione del vivere senza edificazione di castelli o angoli preferenziali ma con un sofferto e chiaro senso di relazione a una vicenda lunga e inestricabile.
Uno stato di grazia che risalta sin dall’apertura affidata alla vena pop-rock infettata di R&B di “My Dear Machine”. Il mood è agile e serrato, il brillante singolo “Radio”, anthemico e irresistibile per appeal, lo tiene alto. Con “Give it Away (Amazing Grace)” che chiude il trittico iniziale, la band si permette il lusso di incantare con un mid-tempo in levare di rara intensità che sfreccia tra un’incombenza di dolore e un’evocazione di gioia. (“conoscevo una canzone che mi suonava dentro, credo di averne smarrito la melodia, e allora Signore ti prego di rendermela … colpisci la roccia, falla sanguinare … se tu soffierai sulle braci la luce risplenderà sul mio volto, le acque scorreranno nel deserto e canteranno Amazing Grace”).
L’irrevocabilità di un’evoluzione densa di gospel e sentore d’esilio fa il paio con un arrangiamento esemplare portato da una filante linea di chitarra ritmica, da un toccante crescendo corale con handclap e da un’elettrica solista bruciante e lacrimosa.
Tale è la qualità e l’intensità prodotta fin qui che il disco potrebbe congedarsi a questo punto, potrebbe essere un grandioso EP. Le soluzioni di Slocum, arpeggi e riffs, le annotazioni melodiche del piano, la punteggiatura accurata, gli intervalli e le ripartenze giocate di fino. E la voce – e che voce – della Nash. Una straordinaria contraddizione vivente nel mondo del rock e del pop. Un canto all’apparenza eternamente adolescente con tenore angelico da teen-star nasconde una sfida per chi voglia sfuggire al comodo status di ascoltatore per sentito dire o intenditore un tanto al chilo.
Ascoltatela nelle strofe di altre due splendide gemme d’autore. “Safety Line” di Slocum e “When You Call Me” della stessa Nash dove la nostra sciorina un vibrato lineare ma chirurgico incrociando suggestioni folk-melò con echi di mitteleuropa, flirtando in punta di voce con la densità grave e ammaliante di una Karin Begquist. Uno schianto.
E sorprendetela ancora più in là, nelle continue stoccate di “Should Not Be This Hard” in una girandola tra effervescenza pop, r’n’r e un southern mood che torna anche nella pura ed essenziale semplicità di “Don’t Blame Yourself”. In un finale che non abbassa la guardia scorrono una “Stand My Ground”, memorabile istantanea d’autore in penombra e una “Sooner than Later” – dedicata al padre della cantante – che si erge sul binomio di un drammatico riff pianistico che porta in grembo il lacerante cantato della Nash.
Un disco che stupisce per come i due autori abbiano trovato modo di assemblare una sequenza di brani che spiazzano per continue variazioni di mood e sfumature, da prendere in blocco senza possibilità di ritagli o facili sintesi. Stupisce e impressiona per come la schiacciante e indomabile forza di canzoni potenti, vive e autentiche si sia rivelata attraverso una delle band più umili e impopolari del globo che realisticamente non avremo mai la fortuna di vedere dalle nostre parti ma che – non diversamente da altri grandi mai sbarcati come i quasi conterranei Allman Brothers Band – ci fa l’onore di una compagnia preziosa e insostituibile.
E intanto mentre Slocum ha già in serbo nuove grandi canzoni per il prossimo lavoro della band, la Nash veste di musica inedita canti della tradizione religiosa e nelle sue esibizioni solistiche coverizza da par suo con grazia e intensità “In My Hour of Darkness”…