Era il lontano 1982 quando “You’ve got another thing coming” dei Judas Priest dominava le classifiche dei singoli più venduti; quando i giovani Iron Maiden davano alla luce il loro terzo album, da molti considerato il più bel disco metal della storia, “The number of the Beast”; i neonati Metallica si trasferivano a San Francisco per ultimare il loro primo album “Kill ‘em all” (inventando così il trash metal) e, soprattutto, il mondo ascoltò per la prima volta l’inno di guerra dei Manowar. A distanza di trenta anni l’heavy metal mantiene intatta tutta la sua potenza, coerente fino all’anacronismo, veloce, pesante, più forte di qualsiasi altra musica. Per questo, da appassionato, ho deciso di andare a Wacken, festival di cui avevo soltanto sentito parlare, curioso di vedere i migliori alfieri che ancora oggi portano avanti questo genere musicale.



John Waters (editorialista dell’Irish Times) sostiene che il rock sia un grido, una domanda che trova una voce ed esplode di conseguenza. Se questo è vero, allora l’heavy metal, nascendo dal desiderio di portare all’estremo il genere rock, non può che trascinare con sé il grido da cui tutto nasce. C’è chi riderà di questo banale sillogismo pensando alle immagini e ai temi che questa musica propone e si chiederà che cosa mai possa esserci di profondo in grandi spade infuocate, teste mozze e birra a fiumi. Ma stiamo parlando di musica, non di letteratura. Il metal è teatrale, è show ma resta un genere musicale e la prima cosa immediatamente evidente è che è un grido, meglio un urlo, sì, un urlo di guerra. Che si scagli contro Dio, contro il dragone che minaccia il reame del sovrano guerriero o contro la società rimane una dichiarazione di guerra e come ogni guerra esige una vittoria. Troppo spesso, passeggiando fuori da sale concerti male insonorizzate, mi è capitato di avere la sensazione che chi suonasse volesse proprio distruggere, attraverso la sua musica, quelle odiose pareti e trasformare la sua sfida in un urlo liberatore: la ghettizzazione del Hard ‘n heavy (soprattutto in Italia) ha contribuito al suo progressivo incattivirsi.



Immaginate, dunque, la mia sorpresa quando per la prima volta ho messo piede nella sacra piana di Wacken per partecipare al W:O:A (Wacken open air), il più grande festival heavy metal del pianeta, che ogni anno, dal 1990, prende vita nei pressi di Amburgo, i primi giorni d’agosto, e ho visto una heavy metal town di 80.000 abitanti. Due chilometri quadrati e mezzo di estensione, sette palchi, un impianto audio della “db audiotechnik” (il non plus ultra) da due megawatt, un’area campeggio perfettamente attrezzata gestita da un servizio d’ordine impeccabile e oltre 100 band da tutto il mondo, tra mostri sacri come Scorpions (al loro ultimo open air show), Saxon, Gamma Ray, e nuove promesse (Boss Hoss – unici a proporre un divertente rock sudista – o Graveyard, tanto per citarne alcune), il tutto ripreso 24 ore al giorno dalla televisione tedesca: la prima sensazione fu quella di trovarmi di fronte a qualcosa di risolutivo, al paradiso (o meglio al Valhalla) del genere.



Il luogo era così organizzato: due chilometri quadrar di campeggio, un area intermedia chiamata “Wackinger” – solo per veri guerrieri del nord -, in cui, tra giostre vichinghe e spiedini di pane si poteva gustare ottima birra a bordo di una drakkar armata di tutto punto; il beergarden, sconfinato pub all’aperto, dotato di un suo palchetto per le esibizioni più giocose e goliardiche; un immensa tensostruttura (grossa da sola come il nostro “gods of metal”) con due palchi minori e un ring per gli incontri di wrestling amatoriale; la main stage area con tre palchi colossali chiamati “black”, “true metal” e “party” stage; il tutto sovrastato da una torre con un teschio di mucca in cima: inconfondibile logo del festival.

Molti gli special events (only for Wacken) da non perdere: il compleanno degli Hammerfall (15 anni di power metal teutonico made in Sweden), i Sepultura (storica formazione che da un death metal estremo, dopo l’album “Roots”, ha virato verso sonorità più tribali) accompagnati dai Tambours du Bronx, ensemble di percussionisti francesi; U.D.O. (ex cantante degli Accept, band che ha fatto la storia del metal tedesco) accompagnato da illusti special guests (tra cui la bionda Doro); i Circle II Circle che han suonato tutto “The wake of Magellan” dei Savatage (grazie Zachary Stevens!!!); i Moonspell in un inedito show in acustico (voto 8 in pagella); ma soprattutto i Dimmu Borgir (gruppo symphonic black metal dai toni “leggermente” apocalittici) si sono presentati sul palco con la Czech National Symphonic Orchestra al completo, con tanto di coro al seguito, tutti in giacca e cravatta, visibilmente emozionati, per uno show che ha reso più evidente che mai che, al di là delle apparenze poco rassicuranti, l’heavy metal è musica, grande musica. Al termine del concerto, i suonatori sono rimasti a lungo sul palco, tra gli applausi scroscianti della platea entusiasta, facendo foto e godendosi il loro momento da rock star, mentre Shagrath (cantante della band), tutto borchie e face-painting, abbracciava il vecchio direttore in frac, ormai al suo decimo inchino.

Guardando e giudicando quel luogo “da buon borghese”, come direbbe De André, si potrebbe, a ragione, dire che si tratti di un covo di matti: è il luogo più rumoroso e assurdo della terra. Il Vichingo, custode del sapere e nostro vicino di tenda, era solito affermare che a Wacken si spegne il cervello. Ogni 10 metri, come se non bastassero i concerti, ci sono casse private che trasmettono heavy metal a qualsiasi ora del giorno e della notte disseminate in tutto il campeggio (tra i gadget del festival, senza dubbio il più apprezzato son stati i tappi per le orecchie); di conseguenza non si parla, si urla: dal semplice “Wackeeen!!!” a “Mi passi lo shampoo, per favore?”.

Quest’anno però l’assoluto protagonista della kermesse è stato il fango: l’intera area del festival era completamente ricoperta di fango, dovuto alle costanti piogge che han preceduto e accompagnato l’evento (ne han parlato tutti i giornali, anche da noi). Inutile dire che, al grido di “Fanghillion”, molti energumeni pieni di birra (in proporzione se ne beve molta più che all’Oktober fest) si gettavano per terra riemergendo felici. “No mud no glory” recitava uno striscione all’ingresso dell’area concerti e il pubblico del festival, di gloria, se n’è guadagnata parecchia.

L’ultima sera, dopo aver passato ore in piedi, a mollo nella melma, torturati da continui e drastici cambiamenti climatici, dopo aver guardato l’intero concerto degli Scorpions (Testament, Amon amarth, Coroner, Axel Rudi Pell – tutti grandi nomi-  sono solo alcune delle band che li hanno preceduti; il bello del Wacken è che non esistono headliner), sotto un fitto e violento acquazzone, fradici e parecchio infreddoliti, i metalheads di tutto il mondo lì riuniti si girarono all’unisono verso l’altro palco principale per seguire l’esibizione dei Machine head (miglior concerto del Wacken 2012), terzultimi in scaletta. 80.000 fan immobili, “rain or shine”, disposti a stare 3 giorni nel fango per le proprie band preferite, non li si trova da nessun’altra parte.

È follia? No, questa è devozione, in altre parole: amore. Ho visto i cantanti più cattivi della musica ringraziare in ginocchio, commossi, di fronte a 160.000 mani al cielo. Ho finalmente capito cosa attende l’urlo di guerra dei metallari: di trasformarsi in un liberatorio “Thank you Wacken, you’re the best crowd we’ve ever had”. A dimostrazione del fatto che il metal, come qualsiasi altra musica, è nella risposta del pubblico che trova il suo compimento: cuore a cuore. E allora la rabbia lascia il posto al sorriso.

(Stefano De Palma)