“Raggiungere la fama non accresce la tua autostima, non crea legami profondi, non guarisce i tuoi traumi infantili anzi, contribuisce ad accrescerli. Si è sempre soggetti ad un sacco di critiche e di lodi, e sia le une che le altre ti fanno a loro modo violenza”. Sembra avere le idee chiare Alanis Morissette, all’indomani dell’uscita del suo nuovo album, “Havoc and Bright Lights”, il sesto della sua carriera. Sa di cosa parla, se si considera che “Jagged Little Pill”, il suo disco d’esordio datato 1995, ha venduto venti milioni di copie, diventando uno degli album di maggior successo degli ultimi vent’anni. E a ben guardare, tocca un tema sensibile, dato che la musica rock è piena di gente che ha dovuto fare i conti con un’ascesa tanto improvvisa quanto vertiginosa.
“So you want to be a rock and roll star” cantavano i Byrds tempo fa, ma si dimenticavano di avvertire riguardo agli effetti collaterali. Non è facile sopravvivere al grande successo: gente come Bruce Springsteen, U2, Leonard Cohen, Pearl Jam ma anche act più giovani come gli Arcade Fire, si sono tutti resi conto che ottenere di colpo tutto ciò per cui hai lavorato una vita, non costituisce per forza di cose un passaporto per la felicità. E se sono ancora qui, vivi e vegeti con ancora tante cose da dire, lo si deve proprio al lavoro che hanno fatto per arrivare a questa consapevolezza. Una consapevolezza che, oltre a salvare la carriera, ti può persino conservare in vita: artisti come Janis Joplin, Jim Morrison, Ian Curtis e Kurt Cobain, sono solo gli esempi più celebri di persone che sono state letteralmente fatte a pezzi dalla propria celebrità. Alanis Morissette, per sua fortuna, appartiene alla prima categoria: nativa di Ottawa, Canada, a 17 anni ballava in televisione canzonette pop da teenager di cui oggi probabilmente lei stessa si vergogna un po’ (su Youtube qualcosa si può ancora vedere e in effetti il livello era abbastanza agghiacciante). “Jagged Little Pill”, che si muoveva su ben altri lidi, fu un vero e proprio capolavoro di pop-rock e il successo che ne seguì fu talmente esagerato che (non è un paradosso) Alanis lo ha sempre considerato come uno dei periodi più difficili della sua vita.
Bisogna darle atto di esserne uscita alla grande: “Supposed Former Infatuation Junkie” (1998) fu un disco lungo, variegato, difficile e assolutamente meraviglioso. Non fu capito, nonostante il tormentone “Thank U” (guarda caso l’episodio più brutto) e vendette “solo” due milioni di copie. Fu una liberazione: accantonata la possibilità di diventare la nuova Madonna (tra le altre cose incideva per la Maverick, di proprietà della signora Ciccone), l’allora ventiquattrenne Alanis iniziò il suo percorso per divenire una songwriter di razza. Non più folle di ragazzini isteriche a seguirla dovunque, bensì un pubblico forse più ristretto ma certamente più maturo e competente. Una carriera solida e sicura da allora in poi, con la freddezza di guardare dritto negli occhi anche gli inevitabili passi falsi (“So called chaos”, del 2004, era abbastanza piatto e privo di ispirazione).
“Havoc and Bright Lights”, dicevamo, è uscito a fine agosto ed è il suo album numero sei. Un titolo strano, quasi un ossimoro (letteralmente “distruzione e luci splendenti”) che può essere spiegato solo conoscendo quello che le è accaduto negli ultimi anni. Nel 2008 finì il suo legame con Ryan Reynolds, l’attore che la lasciò per Scarlett Johansson (vagli a dare torto, potreste dire voi) e ne seguì un disco (“Flavors of entanglement”, dello stesso anno) disperato quanto affascinante, che metteva perfettamente a nudo l’anima lacerata che questa donna si portava dentro. Quattro anni dopo, felicemente sposata con il rapper Mario Treadway (nome d’arte MC Souleye) e fresca madre di Everett Imre, nato nel dicembre del 2010, è alle prese con una fase della sua vita in cui le luci splendono comprensibilmente più luminose che mai. Allo stesso tempo però, c’è la necessità di fare a pezzi il passato, la relazione profondamente dolorosa con Reynolds, le ferite che le ha provocato.
“In questo disco ci sono canzoni che parlano di dipendenze – ha dichiarato la cantante in sede di presentazione – e non esistono solo dipendenze da alcol e droghe”. Brani come “Numb” o “Havoc” sono effettivamente disegnati a colori più scuri rispetto al resto del disco. Un disco che nel resto dei suoi solchi ritrova una spensieratezza e una tranquillità che solo l’essere diventata moglie e madre possono averle fornito. In America qualche giornalista lo ha definito il suo lavoro più accessibile dal famigerato “Jagged Little Pill”. Senza dubbio vero. Ma a noi sembra anche decisamente più innocuo. Come se la serenità raggiunta avesse in qualche modo socchiuso la ferita e con essa si fosse inaridita la vena poetica. Potrebbe anche essere una cosa normale: gli esempi illustri di Springsteen (il confronto tra “Darkness on the edge of town” e “Human Touch” non si pone neppure) e Dylan (idem per “Blood on the tracks” e “Planet Waves”) autorizzerebbero a crederlo ma forse è questione troppo profonda da esaurire in questa sede.
Resta il fatto che “Guardian”, opener e primo singolo, è potente quanto basta e il suo ritornello appare perfetto per scalare le classifiche. Bella ma un po’ troppo auto indulgente e anche un bel po’ pretenziosa nel testo (“Sarò il tuo custode per la vita, il tuo guardiano, sarò il tuo guerriero, la tua sentinella. Sarò il tuo angelo da chiamare, sarò sempre a tua disposizione. Il più grande onore di tutti, essere il tuo guardiano.”). “Woman Down”, con il suo efficace gioco di parole (“Man down” è l’espressione militare per indicare un caduto in battaglia, qui viene messa a servizio di una pungente accusa ai comportamenti misogini di certi uomini) è già un po’ più riuscita e si diverte a giocare con ritmi dance come nel precedente lavoro faceva “Straitjacket”. Ma questo è un disco che trasuda amore da (quasi) tutti i pori e allora ecco la ballata “Till you” (piuttosto inoffensiva, nonostante la strofa abbia una bella melodia vocale) oppure “Empathy”, che parla un linguaggio di rock pop da classifica e riprende il tema già affrontato nel classico “Head over feet”: il bello dell’amore è essere guardati da qualcuno che non censura niente di noi (“Ci sono tante parti di me che ho nascosto, rinnegato e perduto. Ci sono tanti colori che ancora cerco di nascondere mentre dipingo. Grazie per avermi compreso, mi sento molto meno sola adesso. Grazie per avermi guidato, sto guarendo grazie alla tua empatia”).
“Lens” affronta invece il tema della vita a due, con la consapevolezza che non è certo l’assenza di problemi a rendere stabile una relazione (“Così adesso è la tua religione contro la mia, la mia umile opinione contro la tua. Questo non sembra esattamente amore. E’ la tua convinzione contro la mia convinzione e mi piacerebbe sapere che cosa abbiamo visto attraverso le lenti dell’amore”). Riflessioni interessanti, lontani anni luce dalle ossessive recriminazioni del lavoro precedente. C’è pure un pezzo, “Celebrity”, che ironizza in maniera pungente con lo star system e la voglia di apparire ad ogni costo: un brano che a tratti graffia come ai vecchi tempi e che non suona artefatto, quando si pensi a tutto quel che ci sta dietro.
Alla fine, l’impressione è che “Havoc and Bright Lights” sia un disco gradevole e sicuramente ben confezionato (Guy Sigsworth, che aveva lavorato anche su “Flavors…” e Joe Chiccarelli sono senza dubbio una garanzia) ma che non riesca ad andare oltre. Persino quelli che sono sempre stati i punti di forza della Morissette, la notevole espressività vocale e l’eclettica abilità a destreggiarsi con le parole (ancora oggi vocaboli come “disrespect”, “corroborate”, “profane”, non sono proprio all’ordine del giorno in un testo rock) appaiono in questa sede piuttosto prevedibili. Neanche a farlo apposta, i brani migliori sembrano essere proprio i già citati “Havoc” e “Numb”, ovvero quelli dove il ricordo del dolore affiora in maniera inequivocabile. Può darsi che quella che è ormai una donna di 38 anni sia molto più contenta di fare la mamma che di mettersi a scrivere canzoni. Potrebbe semplicemente essere un passo falso. Potrebbe invece avere del tutto perso l’ispirazione. Qualunque sia la ragione, “Havoc and Bright Lights” non è certamente un disco memorabile. Detto questo, i fan più accaniti lo avranno certamente già comprato, per cui troveranno del tutto inutile questo articolo. Per chi invece non la conoscesse, buttatevi al volo sui primi tre lavori e non vi sbaglierete. In attesa di capire cosa succederà in futuro.
(Luca Franceschini)