Era maggio 2010, nello studio Effettonote di Milano stavamo registrando il secondo disco degli Outofsize, band in cui suono da sempre basso e chitarra. Per la parte di banjo avevamo contattato un tizio sottile e schivo, che era entrato in studio e, in silenzio, aveva suonato la sua parte per due ore filate. Alla fine della registrazione, quasi per caso, gli ho lanciato un “perché non vieni a suonare con noi, nei prossimi concerti?”. Mai e poi mai avrei pensato che da quel momento il mio nome sarebbe, per una serie di rimbalzi totalmente imprevedibili, finito al fianco di quello di alcuni miti della musica country-rock come Richie Furay, Herb Pedersen e Rick Roberts, nei credits di un altro cd.
Ma quello che mi sarebbe sembrato proprio una totale assurditá, è quello che invece è realmente accaduto nel corso della seconda settimana del settembre 2012.



Essere in North Carolina con un gruppo di dodici italiani a suonare Country, Bluegrass e Country Rock nella terra dove Country, Bluegrass e Country Rock li hanno inventati. Sentirsi dire “has been an honour to share the stage with you” da uno come Doug Rorrer, chitarrista flatpicker di grande talento, e soprattutto nipote del patriarca della musica country Charlie Poole. Diventare Cittadino Onorario di Eden, paesino sulle propaggini delle Blue Ridge Mountains (sì, proprio quelle di Country Road di John Denver…), dove il Nord Carolina confina con la Virginia.
Insomma, fare parte dell’incredibile leggenda della Piedmont Brothers Band.



Già altri hanno parlato, anche su queste pagine, di questa strana compagine di amici di tutte le età e di tutte le nazionalità unita dall’irrefrenabile passione di Marco Zanzi e Ron Martin per la musica americana, che comincia a farsi notare anche al di fuori dello stretto giro di conoscenti e che lo scorso anno ha diviso il cartellone con calibri quali Francesco De Gregori (al Folkest ’12) e Andrea Braido (Wood in Stock 2012). Io mi limiterò a raccontare la storia di quei cinque meravigliosi giorni, fatti di grandi risate e colossali liti, birre fra le migliori del mondo (eh si, è stata una sorpresa anche per me) e serate in pizzeria, stuffed peppers e deviled egg, musica e chiacchierate, centinaia di miglia fatte piano piano per andare a suonare in un granaio, in un bar, un festival o a fianco a un mulino.
Giorni fatti soprattutto di incontri straordinari.



Milano, mercoledì 12 settembre 2012, 04:28 del mattino. Io e Manuel su un treno rotto. Io sono Francesco Frugiuele e nella Piedmont Brothers Band suono chitarra e basso. Manuel – Manuel Corato – suona il piano e chitarre (anche negli Outofsize, per inciso).
Quella mattina comincia in un modo proprio country. Sono le quattro e mezza del mattino, saliamo sul Malpensa Express, a Cadorna, ma c’è qualcosa che non va, l’unico operatore sulla banchina discute al telefono e scuote la testa: lo guardo. D’altronde il Country è la musica delle vicende quotidiane, potremmo essere dentro a “This Is Country Music” l’ultimo disco di Brad Paisley, superstar country-pop di Nashville che non ha niente da invidiare, quanto a vendite, a Lady Gaga o Justin Bieber.

Ma torniamo al nostro treno. Rotto. Irrimediabilmente. Ne devono accendere un’altro. Lo accendono, ci mettono un po’, partiamo in ritardo per Malpensa, ma arrivati là scopriamo che a partire per Charlotte, NC al mercoledì mattina da Milano non è che ci sia proprio la ressa…- e in effetti, chi di voi conosce qualcuno che sia mai andato in North Carolina a fare, chessò, un giretto?

Insomma, ci facciamo il nostro allegro check-in, controlli, gate B16, aereo. Si parte. Siamo un po’ stralunati, dal sonno, dalla sveglia, dal fatto che “stiamo andando in tournée negli Stati Uniti”, ed ovviamente esaltatissimi. Gli altri del gruppo sono già là da 3 giorni, e ieri hanno suonato in un posto chiamato “Bluegrass Barn”. Un locale – se possiamo chiamare locale un posto dove non servono altro che acqua e bibite – ricavato da un granaio con fucili, violini e vecchie stampe alle pareti. La leggenda, perchè per i PBB è già clima di leggenda, narra che sia stato un successone e che i Rednecks abbiano addirittura ballato tutta la sera.
Possibile? Ora arriviamo noi a controllare.

Anyway. Scalo, volo: film, sonno, sonno, film. Siamo arrivati.
Arrivati a Charlotte, North Carolina, città che nessuno conosce finché non ci viene, e in genere non si hanno motivi per venirci.
Eppure è una volta e mezza più grande di Atlanta.
Eppure c’è la sede della Bank of America.
Eppure è il secondo polo finanziario degli USA dopo New York. 
Eppure c’è il centro delle attività della NASCAR.
Eppure anche la Pepsi Cola è stata inventata non lontanissimo da qui, a New Bern, una cittadina sulla costa Atlantica.
A Charlotte, by the way, la specialità è una specie di banana split al bicchiere chiamato “Banana Pudding”. Meravigliosamente kitsch, ovviamente io l’ho mangiato. Noi però non siamo diretti a Charlotte, ma 150 miglia più a nord. Al confine con la Virginia. Dove le Blue Ridge Mountains piegano verso est. La nostra meta, tanto per restare nella leggenda, è un paesino chiamato EDEN. Chissà che avrà di speciale per chiamarsi così. Macchina a noleggio. Partiamo.
Il viaggio è come sono i viaggi in America. Rilassante, luminoso, più corto di quello che pensi all’inizio. Ci metto mezz’ora a trovare una radio che dia musica country, chissà perché mi ero immaginato che ci fosse solo quella, qua al Sud. E invece JayZ e Beyoncè a manetta. E se ti guardi intorno, capisci che la cosa ha anche un suo senso. Comunque, io insisto e sulla frequenza di isoradio ne trovo una. E la tengo stretta. Con la radio giusta il viaggio è ancora più leggero.
E poi le autostrade del North Carolina, come dice il mio compagno di viaggio, sembra che attraversino un gigantesco campo da golf. Prati alberi alberi prati. Bello bello bello. Forse un po’ tutto uguale. Ma ugualmente bello.
Arriviamo a Eden. Nessuna ragione apparente perché si chiami così. Cioè, non fraintendiamo: il posto è bello. Molto bello. Prati e alberi, alberi e prati. E due fiumi. Eden, Land of two rivers.

Andiamo a casa di Ron. Grandi abbracci ma veloci: e ci troviamo ancora in macchina. Perché è BARBECUE TIME. Qua, dovete capire, siamo in North Carolina, che a dispetto del nome è ben a sud degli USA. Siamo un po’ sotto Tunisi, come meridiano. Qua il barbecue è una cosa seria. Mica salsicce e hamburger, ma piatti come Pulled Pork, Ush Puppies, Baby Back Ribs.  Se si va ancora più a sud s’incontra anche sua maestà il Brisket. Ma questa è un’altra storia. Insomma, in un giardino di Eden, letteralmente colmo di ogni ben di Dio, un gruppo di musicisti italiani, americani e una ventina di amici che arrivavano da ogni parte degli states, dal Colorado al Connecticut, dalla Virgina al Massachussets. E se questa non è leggenda ditemi voi cos’è. E’ stata quella sera, alla prima bottiglia, che ho iniziato a capire che la birra da queste parti è una cosa seria. Almeno come il vino da noi. Serious as Hell.

Il fuoco è pronto dal primo pomeriggio, i primi piatti arrivano quando per noi sarebbe ora di merenda. Fantastico se arrivi da un viaggio e hai fame. Ancora meglio se si va avanti interminatamente. Al calare del buio in mezzo ai tavoli compare anche un bel fuoco, saltano fuori chitarre, banjo, mandolini e violini (che qua chissà perché, chiamano fiddle) e si parte. Tutti suonano, tutti cantano, gli strumenti passano di mano. Meno male che non mi danno un fiddle.
Il giorno dopo lo passiamo in giro per le blue ridge mountains. Automobile, chiacchiere, inglese italiano, italiano, napoletano, inglese. E sempre con noi prati e alberi. Sempre più belli, a fianco di strade che sembrano fatte apposta per un’Harley Davidson. Come mi ricorda un gruppo di svalvolati on the road che quasi investo in pieno a un incrocio, e che mi sfila a fianco con sguardo carico di rimprovero. Mangiamo bene in una Vineyard in Virginia che studia da Chateau in Borgogna.
Ma noi siamo qua per suonare, o no?

Sì, e infatti la sera lunghissime prove, ospiti di un grandissimo chitarrista di nome Doug Rorrer, il nipote di Charlie Poole, negli studi della Flyin’ Cloud Records, cioè praticamente in una casetta circondata da boschi di querce e larici, sotto gli occhi un po’ prevenuti (prima) e decisamente attoniti (poi) di tutti quelli che erano passati a vedere se era proprio vero che gli Italians sanno suonare, e se sanno suonare il bluegrass veramente, e la mattina dopo, molto presto, addirittura una gita agli studi della FOX di Winston Salem per registrare la prima comparsa sulla televisione americana di un gruppo country italiano, una mattinata passata a Greensboro a provare chitarre, un pranzo in un diner dai poderosi hamburger con un cameriere che era l’esatta reincarnazione di Marvin Gaye, soprattutto come voce, e un concerto fantastico in un locale a Lexington innaffiato da birre spettacolari e fermato a metà per una mezza rissa con il proprietario ma senza inseguimento con la polizia, peccato.

 

Ma domani è sabato. È il grande giorno da cui tutta la tourné è scaturita. Si suona al Riverfest.
Un vero festival Redneck: musica, riffe, bancarelle, di tutto di più. Il gioco del tizio seduto sospeso sopra l’acqua che se centri un bersaglio con la palla si fa un tuffo. La mongolfiera gigantesca su cui si possono fare i giri. Gli stand pubblicitari dei trattori John Deere, delle birre di ogni marca purché Light, la riffa dei veterani dei marines, e cioè un tavolo con un gigantesco fucile a pompa nero appoggiato sopra. Compri un biglietto da 1 dollaro, se alla sera viene estratto il tuo te ne vai a casa col fucile.

A Kate, la nostra cantante, che è del Massachusetts ma vive sui Navigli, fanno pure cantare “The star spangled banner”, l’inno nazionale americano all’apertura del festival. È un grande onore.  Grande attesa circonda l’arrivo dei PBB. Qua ci considerano più o meno come noi loro. Esotici e Internazionali. E la giornata passa nell’attesa del concerto.
Suoniamo alle 4.30, un po’ come suonare alle 8.30 in Italia, visto che qua è praticamente l’ora di cena. C’è un sacco di gente, di tutte le età. C’è una signora sui sessanta che balla da sola a un metro dal palco. E due che sembrerebbero più verso i 90 che fanno lo stesso, ma sedute sulle balle di paglia allineate in file parallele, come lunghe panche country. Soundcheck serratissimo, come ogni festival, iniziamo.
Aspetta.
Fermano tutto, sale un tizio. Capelli candidi. Accompagnato da una dell’organizzazione, con un plico di fogli e un sacchetto. I fogli sono 12 attestati di cittadinanza onorari. Firmati da lui. Lui è il sindaco della città. Breve discorso. Sembra che sta cosa degli Italians che suonano la loro musica li esalti proprio. Un discorsetto tocca anche a Ron e Marco. Io sono ancora più nervoso. Durante la nostra esibizione si alternano un sacco di ospiti, c’è sempre qualcuno che sale e scende dal palco, e forse non abbiamo suonato neanche tanto bene. La sera prima, a Lexington, mi era sembrato tutto “meglio”.
Mi stupisco quindi tantissimo quando, alla fine, mentre scendo dal palco verso il backstage, il tastierista del gruppo che ci aveva preceduto e prestato la tastiera, intercetta il mio sguardo e mi sussurra con fare soddisfatto: “Best Instrumentalists I ever heard.” Non è vero, credo.

Ma oramai tutto, in questi giorni, è leggenda.

 

(Francesco Frugiuele)