“The boys are back and they’re looking for trouble”. È con questo grido ripetuto che si apre il nuovo album dei bostoniani Dropkick Murphys e non avrebbe potuto esserci messaggio più azzeccato. “Irlandesi di sangue ma americani di cuore”, potremmo dire parafrasando una celebre hit di Morrissey, la band di Ken Keasey torna con un nuovo disco, l’ottavo, a meno di due anni di distanza dal precedente “Going out in style” e sin dal già citato opener promette che sarà un gran ritorno. Dopo un inizio in cui sono le voci ad essere in primo piano, sostenute dalla chitarra acustica, il pezzo esplode in una botta di energia in cui lo street punk incontra i pub irlandesi e che sembra fatto apposta per mietere vittime quando verrà suonata dal vivo. 



“Signed and sealed in blood” è un titolo che forse più di ogni altro esprime l’essenza di una band che ha la propria musica nel sangue e che del suonarla sui palchi di tutto il mondo ha fatto una ragione di vita. Il grande pubblico li conosce da quando Martin Scorsese li scelse per la colonna sonora di “The departed”, il capolavoro che gli fruttò il primo Oscar della sua carriera. Il film era ambientato nel mondo della mafia irlandese di Boston e i Dropkick Murphys furono una scelta decisamente obbligata. In realtà, all’epoca avevano già pubblicato cinque dischi e potevano godere di un larghissimo seguito di fan. Grandi amanti dell’Irlanda e delle sue tradizioni musicali, i nostri hanno sin dall’inizio tinto di folk il loro ruvido punk stradaiolo e hanno spesso affiancato alle composizioni personali, interessanti e divertenti riletture di classici Irish come “Auld triangle”, “The wild rover”, “Green fields of France” o “Fields of Athenry”. Una formula efficace e vincente che li ha resi in pochi anni un nome importante, non solo all’interno del circolo ristretto dello street punk, ma come parte del mondo rock in generale (si pensi ad esempio alla collaborazione con Bruce Springsteen nel brano “Peg ‘o my heart”). 



Questo nuovo lavoro conferma in tutto e per tutto le coordinate stilistiche adottate con l’album precedente: l’impatto distorto delle chitarre risulta parecchio ridotto, a favore di una maggiore crescita di banjo, bagpipes, flauti e altri strumenti di questo genere. Meno punk e più folk dunque, con la struttura delle melodie che ricorda sempre più da vicino quella di act come Chieftains o Pogues. È un mutamento che è avvenuto progressivamente, a dir la verità (almeno a partire dal quarto lavoro “Blackout”) ma che adesso sembra approdato ad una fase più o meno compiuta. 



Tutto come al solito dunque: si parte veloce con “The boys are back” e “The prisoner’s song” (che nell’incedere ossessivo delle bagpipes ricorda molto la “scorsesiana” “Shipping up to Boston” ma che risulta comunque efficace), poi il ritmo rallenta con “Rose tatoo”, ballatona folk che ci parla di come l’inchiostro dei tatuaggi possa raccontare la storia di una vita e che musicalmente sembra uscita dalle session acustiche a cui la band ci aveva abituato durante l’ultimo tour. 

Si muove sulla stessa falsariga “Jimmy Collins wake”, dotata del ritornello più bello di tutto il disco, che racconta del funerale della leggenda del baseball Jimmy Collins, l’allenatore dello storico titolo dei Boston Red Sox nelle World Series del 1903. Quello sportivo è un altro ambito che sta molto a cuore a questa band, se si pensa che  la loro versione di “Tessie”, l’inno dei Red Sox, divenne la colonna sonora ufficiale di un’altra storica vittoria, quella del 2004. Tra i pezzi acustici spicca anche “The season’s upon us”, esilarante racconto (autobiografico?) di un Natale passato in famiglia ad alto tasso alcolico, in mezzo a pittoreschi personaggi appartenenti a numerose generazioni di parenti. Si ritorna a pestare duro con “Burn”, “My hero” e “The battle rages on”, veri e propri brani in your face, musicalmente di poche pretese ma straordinariamente efficaci nel mettere in chiaro gli intenti del gruppo. 

In definitiva, di “Signed and sealed in blood” si potrebbero dare due letture diverse: gli addetti ai lavori diranno che è identico al precedente, che sembra il frutto di uno smaliziato lavoro a tavolino e che nel complesso i pezzi non sono più belli come una volta. I fan grideranno al capolavoro e saluteranno con entusiasmo l’ennesima dichiarazione d’amore di questo gruppo al loro pubblico. Come spesso accade, la verità sta nel mezzo. 

Forse la conclusiva “End of the night” potrebbe mettere d’accordo tutti: una sentita drinking song, tanto nostalgica nelle strofe, quanto caciarona nei ritornelli, da cantare a squarciagola con tanto di boccale di birra in mano, affermando una piccola e semplice verità: “è la fine della notte ma non stiamo andando a casa”. Si continua il 6 febbraio all’Alcatraz di Milano. 

 

(Luca Franceschini)