E’ notizia di questa settimana che alcuni dei musicisti che hanno accompagnato dal vivo Fabrizio De André  per gran parte degli ultimi anni di attività del grande cantautore genovese hanno deciso – con la benedizione della relativa Fondazione e di Dori Ghezzi – di riproporne un intero concerto, in particolare il tour “Donne e Uomini” targato 1992, unico tra i concerti della carriera del nostro a non essere stato registrato per la pubblicazione nel mastodontico cofanetto antologico di fresco rilascio.  Si tratta del batterista Ellade Bandini, del fiatista Mario Arcari e del chitarrista Giorgio Cordini.  Con loro sul palco altri sette musicisti tra i quali Alessandro Adami a ridisegnare le parti vocali di Faber oltre a Eros Cristiani e Max Gabanizza (componenti della band di Mauro Pagani) rispettivamente a tastiere e basso.  L’esordio della formazione c’è stato il 12 gennaio al Lauro Rossi di Macerata. 



Verrebbe da dire che di queste cose il mercato della musica live è saturo a tutti livelli, sia sul terreno dei grandi nomi del rock internazionale che su quello dei grandi nomi italiani.  I tre menzionati musicisti hanno pensato che sarebbe stato bello riproporre quelle cose “…ma non come fanno le cover band, casomai costruendo un gruppo in cui ci fossero quelli che hanno lavorato davvero con lui…”.  Piccola perplessità. La PFM ha fatto per anni quello che a sentire queste dichiarazioni sembra essere qualcosa di inedito e fuori dell’ordinario e non si può certo dire si tratti di musicisti che non abbiano incrociato le sinergie artistiche con il compianto genovese.  Si tratta poi di intendersi su cosa voglia significare l’espressione “cover band” impiegato da costoro quasi fosse un elemento di separazione tra chi, come loro, è degno in quanto ha condiviso la strada con De André e i volonterosi dopolavoristi che si cimentano con un grande repertorio di cui non sono all’altezza.  La questione è essenzialmente di testa e, se vogliamo prendere per buona la loro interpretazione dismissiva, il virus da cover band o artist che dir si voglia può arrivare a contaminare persino chi negli anni, tra i grandi della musica, si reinventa a recitare lo stanco copione del ripasso di repertorio anziché vagliare e sorprendere cosa della propria opera ha da dire sull’uomo e sulla vita in un dato momento.  Paradossalmente può accadere, ed è accaduto, che persino un grande nome possa diventare cover di sé stesso. Questione di testa e di immedesimazione.



E’ triste notare questa diffusa smania di montare addosso ad un repertorio che è ancora storia recente riducendolo a cronaca.   Quasi come se la sola bravura personale potesse aggiungere qualcosa a quanto già fatto, qualcosa che lo faccia vibrare al presente con quella forza anche provocatoria e fastidiosa impressa dall’originale.  C’è indubbiamente chi l’ha fatto e lo fa senza clamori, qui sembra tutto così altisonante e, direi, un po’ disumano, perché si intende fare presunta arte partendo dal presupposto di “risuonare quelle musiche con tranquillità, anche perché come è noto con lui era un disastro, una fatica enorme, perché era un perfezionista, non gli stava mai bene niente“. 



Questo è un po’ triste e, ripeto, disumano proprio nel senso di fare piazza pulita dall’umano di un grande – nel caso De André – dei difetti, delle tare, dei guasti con il relativo fastidio che portano con sé.  Come scrivere un libro sull’amore immenso che si prova per la propria donna dopo una separazione o dopo una morte perché così si può scrivere tranquillamente (senza che lei sia più in giro a dare fastidio) su come avrebbe potuto essere più bello e perfetto l’amore senza il suo fiato sul collo.  Ma questa è un’idea sull’amore, è una fantasia disperata, come quella di rifare il De André senza pressioni è una sorta di eugenetica dell’arte.  Se non fosse stato, in tutto quello che è stato, anche un gran rompiscatole oggi nessuno sarebbe qui a dire di De Andrèécome di un’unicità che ci manca.   Idem se un Gaber fosse stato più accomodante nello scrivere i suoi spettacoli e nei suoi interventi pubblici cercando una maggiore indulgenza verso chicchessia o qualcuno da compiacere.

In fondo sgravare l’arte e la vita è facile e questo pare un perfetto esempio.  Basta togliere la tensione, i contrasti e la drammaticità alla sua origine, l’arte che dimentica il dolore che l’ha generata, persino i momenti di urto e di rigetto, quella che  in nome di una malintesa tranquillità potrà mettere sotto silenzio anche noi stessi.