La leggenda dice che all’apice del successo, nel periodo tra “Out of time” e “Automatic for the people”, quando con la sua band aveva finalmente raccolto i frutti di anni di durissimo lavoro sui palchi e negli studi di registrazione, Peter Buck, chitarrista e principale testa pensante dei R.E.M., passò un anno intero a letto in pigiama, mangiando solo pizza ordinata a domicilio e bevendo grandi quantità di vino rosso. 



Sia vero o meno questo aneddoto, anni dopo Peter Buck a letto ci è finito di nuovo, e questa volta per un pesante mal di schiena. Come lui stesso ha detto, l’inattività forzata avrebbe in qualche modo stimolato la sua creatività e ne sarebbe uscito questo disco, il primo realizzato come solista. 

Questo è il primo fatto strano. Il secondo è che il lavoro in questione è disponibile, per il momento, solo in vinile e solo in una limitatissima tiratura di duemila copie. Non solo: è uscito per un’etichetta americana che si occupa quasi esclusivamente di ristampe di vecchi lavori jazz e folk. Stravagante? Nell’era del digitale selvaggio direi proprio di sì. Durante l’ultimo tour capitò che il buon Peter prendesse in giro alcuni fan che gli chiedevano qualche oscura b-side dicendo: “Non esistono più le b-side, ci sono solo gli mp3 adesso!”. 



Ma nonostante questo, il chitarrista è sempre stato un fanatico del vinile, un collezionista scrupoloso e appassionato e un incredibile conoscitore della storia del rock. Il ruolo di “secchione”, all’interno del quartetto di Athens, Georgia, ce l’ha sempre avuto lui; e non solo per le sue manie di perfezionismo in studio. Certo, magari poi non riusciva a ricordarsi in quale disco si trovasse “Losing my religion”, la più grande hit della sua band, ma per quanto riguarda il resto era difficilmente battibile. 

Ora che i R.E.M. non ci sono più da un paio d’anni, erano in molti ad interrogarsi sul futuro di un musicista che comunque non è mai stato con le mani in mano: molti i side projects annoverati nel corso degli anni, di cui l’ultimo porta il nome di Tired Pony, tirati su assieme a membri di Snow Patrol e Belle & Sebastian. 



Questo album può rappresentare una buona risposta a questi interrogativi. Chiamati a sé alcuni amici musicisti tra cui Scott McCaughey alla chitarra, Bill Rieflin alla batteria (che si erano visti anche negli ultimi tour dei R.E.M., un certo Mike Mills al basso (eh già, c’è anche lui), Corin Tucker alle backing vocals, ha registrato quelle canzoni che ha composto durante la malattia e forse qualche cosa che giaceva da tempo nei cassetti di casa, in attesa di un migliore utilizzo. Ne è venuto fuori un lavoro bellissimo, che non grida al miracolo ma che fa vedere cosa è in grado di fare un musicista quando mira semplicemente a divertirsi suonando. 

C’è un’impronta molto blues in “Peter Buck” (niente titolo, solo il nome dell’autore, che non è neppure scritto in copertina): a cominciare dall’opener “10 Millions B.C.”, col suo riff semplicissimo e ossessivo, su cui si staglia una voce roca e filtrata, una voce che mai avevamo sentito prima d’ora (se si eccettuano le interviste rilasciate). Poi c’è “Give me back my wig”, sporchissima e divertente, e la lenta e strascicata “Hard old world”, con la voce di Buck che è così espressiva che ti chiedi come mai si sia sempre rifiutato di cantare. “It’s allright” invece si apre con percussioni e vari rumori di fondo. Quando entra la voce, filtrata quanto basta, non si può non pensare al Tom Waits più sperimentale, quello di “Rain Dogs” o “Bone Machine”, tanto per intenderci. 

“Some Kind of velvet Sunday morning” (che nonostante il titolo, con quel gruppo che ha fatto un disco con la banana in copertina non c’entra nulla) è ammantata di archi e di chitarre acustiche e profuma di anni ’60, di alcune band come Love o Beach Boys. E parlando di anni ’60, difficile non farsi affascinare da “Travel without arriving”, psichedelica nel titolo e nelle melodie, a metà tra “Within you without you” e “Tomorrow never knows” (e guarda caso quest’ultimo è sempre stato uno dei brani preferiti di Buck, all’interno della vasta discografia dei Beatles). Uno dei pezzi più riusciti è senza dubbio “Nowhere no way”, delicata ballata in bilico tra folk e rock, costruita quasi interamente sul pianoforte. 

“Nothing means nothing”, invece, rievoca più che giustamente lo spettro della band madre di Buck. Gran lavoro di chitarra e, anche se c’è Corin Tucker al posto di Michael Stipe, le linee vocali, soprattutto nel ritornello, sono quelle lì. C’è spazio anche per lo scherzo punk “Vaso Loco” o il divertissement parlato L.V.M.F. segno del probabile clima disteso in cui si sono svolte le session di registrazione. 

Insomma, un disco che, al di là dell’aria scanzonata di alcuni episodi e dalla sua pubblicazione in sordina, è tutto tranne che trascurabile. Un disco che è l’omaggio di un grande chitarrista a tutta quella tradizione musicale con cui è cresciuto e che recupera anche quello spirito garage degli esordi (la produzione, affidata a Jacknife Lee, altra vecchia conoscenza, è volutamente sporca), quando Athens era teatro di una scena musicale in grande fermento. 

Il perfetto punto da cui ripartire dopo lo scioglimento dei R.E.M. L’avranno anche voluto loro ma reinventarsi una carriera non è mai facile. L’impressione è che con un prodotto come questo si possa fare un altro bel pezzo di strada. 

(Luca Franceschini)