Nato come genere di protesta da parte della popolazione di colore, il blues ha sempre mantenuto negli anni la sua valenza sociale, legato com’è a doppio filo con le lotte contro la schiavitù. Blues come espressione di un dolore e di un malessere profondo, che unisce il lamento cantato col suono della chitarra. Blues come genere decisamente americano, proprio per il legame inscindibile di cui sopra.



Ma chi dice che il blues non possa essere colonna sonora anche di altre lotte, altre battaglie, altri tentativi di rivendicazione? Non lo pensa di sicuro Daniele Tenca, che pubblica in questi giorni “Wake up nation”, il suo terzo album in studio, il secondo di blues. E se l’album di esordio in italiano era un buon compromesso tra rock e tradizione cantautorale del nostro paese, sia “Blues for the working class” che il recente “Wake up nation” dimostrano come Daniele e la sua band mastichino perfettamente il linguaggio del Delta, sia nelle musiche che nelle tematiche e soprattutto nello spirito.



Dopo aver riflettuto e cantato della classe operaia (la che? Classe cosa?? ah perché, esiste ancora?), Daniele si rivolge ora alla propria nazione, cercando di scuoterla da un torpore che ormai la sta distruggendo, lentamente e inesorabilmente.

Circondato da ottimi musicisti, in pratica il meglio del blues italiano, (Gnola Glielmo, Paolo Bonfanti, Riccardo Maccabruni, Andy J Forest, Cooper Cupertino) Tenca pubblica un disco completo, sferzante, che lancia un grido di allarme ma che di certo non dimostra rassegnazione. Rabbiosamente ironico è il pezzo iniziale, Dead and gone, dove si riciclano quei luoghi comuni con cui per anni si è parlato alla pancia dei cittadini, cercando di coinvolgerli in una guerra tra poveri che ha avuto il solo risultato di creare una patina di razzismo e intolleranza sotto la quale l’anima più vera dell’uomo trova appunto la morte e la sepoltura.



A fare da contraltare arriva subito dopo la velenosa Big Daddy, che parla di chi per anni ha comprato piaceri e piacere grazie a soldi sporchi e a una rete di disonestà prima di tutto intellettuale, che ha chiuso occhi e naso a chi cadeva nella trappola, magari illuso da un programma televisivo o da una squadra di calcio.

What ain’t got richiama sia nel titolo che nel testo la canzone di De André e Bubola (Quello che non ho), ma stavolta a mancare al protagonista è una serie di cose che una volta forse si potevano chiamare nazione o patria, concetti ora riservati a nostalgici paramilitari, mentre quella fascia di popolazione che dallo stato (nazione, patria) avrebbe più bisogno di un (doveroso) aiuto sente lontana e anzi fonte di costante imbarazzo; così come il pezzo successivo, The wounds stay with you, che parla di ferite e cicatrici, spinge gli ascoltatori a serrare le file e fare fronte comune contro chi trae vantaggio dal metterci al fondo della catena alimentare. A sottolineare tutto questo una lap steel guitar che urla forte il suo malcontento (l’ottimo Matteo Toni).

È un album sofferto e doloroso, due emozioni forti che permeano tutte le canzoni e condizionano tutti gli aspetti della vita dei protagonisti, anche quelli più romantici. Un disco che partendo da una musica senza tempo come il blues, lo rende attualissimo, cantando testi immediati e profondi, che rispecchiano in modo molto crudo e diretto la realtà odierna. Ottimo esempio di questo è What did you do?, immaginario dialogo (tra padre e figlio?) con chi non ha avuto il coraggio di schierarsi, se non nascondendosi dietro l’anonimato di internet, dove ognuno può essere un feroce rivoluzionario senza muoversi di un centimetro dalla sua sedia e dalla sua pigrizia. Domande a cui forse tra qualche anno dovremmo rispondere appunto ai nostri figli, ai quali stiamo lasciando un mondo di odio e rovine.

La fantastica ballata Silver Dress prova a portare un po’ di dolcezza ma il desiderio in tempi come questi spesso è frustrazione e rimpianto. 

Musica senza tempo che quindi non può prescindere da alcuni padri fondatori, come Bob Dylan, che meglio di chiunque altro ha cantato del malessere e delle ingiustizie e la cui It’s all good (da “Together through ife” del 2009) suona perfettamente adeguata alle tematiche dell’album.

La title track è un pezzo incalzante, con chitarra e batteria (Pablo Leoni) che disegnano un ritmo battagliero, tappeto perfetto per l’esortazione di Daniele, che invita la sua gente a guardarsi da “imitazioni di Dio a buon mercato e da troppi canali televisivi, mentre il dissenso non è permesso e ci stanno rubando il meglio dalle mani”.

A chiusura del disco un’altra cover, Society, cantata da Eddie Vedder nel suo meraviglioso album solista “Into the wild” (colonna sonora del capolavoro di Sean Penn) che viene riproposta per un finale dolce amaro, arricchito da una armonica che arriva dritta dalle session di “Nebraska”. 

Sembra quasi che il protagonista scelga di non accettare più le regole di questa società (razza folle) e se ne allontani (come del resto accade nel film), non prima di aver tracciato un altro impietoso ritratto che ne denuncia le brutture, come Daniele ha fatto nel corso di tutto l’album.

“Spero che tu non ti senta sola senza di me”, dice in chiusura di album, ma sarebbe un peccato che Daniele seguisse alla lettera le vicende del protagonista di Society, la sua nazione ha bisogno di gente che ne canti problemi e contraddizioni, sferzandola e esortandola, come lui sta dimostrando di saper fare così bene.

 

(Il Cala

http://ilcala.blogspot.it/)