“In realtà l’Italia è uccisa dal provincialismo e la cosa più grave è che noi ce ne siamo sempre fregati. Non capisco perché qui debba esserci l’idea che se fai musica, gli unici canali per cui puoi avere successo sono quelli della musica leggera, di Sanremo, di uno scimmiottamento dei cantautori. Sai cosa ti dico? I nostri dischi vengono recensiti regolarmente anche all’estero e lì mai nessuno ci ha definiti una band “italiana” che suona musica “americana”. Lì guardano alla musica e basta. Se gli piaci, lo scrivono, altrimenti dicono che fai schifo, fine della storia.” Non ha peli sulla lingua Marco Diamantini, cantante e chitarrista dei pesaresi Cheap Wine. Già, perché a un gruppo come il loro, che è in giro da quindici anni, l’etichetta “Made in USA” appiccicata come se fosse un’anomalia, proprio non va giù. “Io sono nato e cresciuto vedendo gli stessi film e leggendo gli stessi libri di un ragazzo nato a Houston, Dallas o New York. E per la musica è lo stesso.  Noi non scimmiottiamo nessuno, questa è la nostra cultura. Diciamo tutti che viviamo in un mondo globalizzato ma poi, quando si tratta di queste cose, siamo sempre pronti a distinguere… è assurdo”. 



Incontriamo Marco all’interno del Circolone di Legnano, storico locale dove i Cheap Wine sono quasi di casa e dove sono arrivati per presentare il nuovo “Based on lies”, il settimo lavoro della loro onorata carriera. “E’ un disco che riassume tutte le sfaccettature di questa band e le atmosfere musicali da lei espresse nel corso degli anni. Si passa dal rock alla psichedelia, alla ballata folk, ecc.” Gli faccio notare che forse, rispetto al suo predecessore, suona un po’ più aggressivo. “E’ senza dubbio vero – risponde – “Spirits” era un lavoro più intimista, anche a livello di suoni, avevamo insistito molto sulle chitarre acustiche. E’ stato un disco importante, che ha fatto fare al gruppo un salto di qualità e che ha influenzato notevolmente anche questo lavoro. Però è vero, “Based on lies” è senza dubbio più carico”. 



La ragione, a suo dire, risiederebbe nella particolare natura dei testi: “Questa volta non ci siamo ispirati a visioni letterarie, abbiamo parlato di esperienza autobiografiche, alcune delle quali anche molto sofferte. C’è dunque una carica di dolore, di rabbia ma a mio avviso non di negatività. Alcuni ci hanno detto che questo è un disco pessimista ma non è vero: sono testi che devono servire da stimolo per un riscatto, per un cambiamento, ma non sono pessimisti. Sono crudi, certo, ma proprio perché prendono spunto dalla realtà e la realtà, mi spiace dirlo, è cruda.” 

Gli chiedo di “Give me Tom Waits”, incuriosito dal titolo che chiama in causa uno dei miei artisti preferiti: “Anch’io sono un grande fan di Tom Waits – risponde Marco sorridendo – Quella è senza dubbio la canzone più positiva del disco, un pezzo liberatorio, la celebrazione del fatto che la musica, anche nei momenti più duri, ti può far stare meglio, ti salva. Io stesso sono stato salvato più volte dalla musica. La vita è dura, ci sono tanti problemi ma ci sono anche momenti belli, in cui si vuole avere tutto il meglio che c’è. E allora, dateci Tom Waits perché, in questo campo, è uno dei migliori in assoluto”. 



Anche loro non scherzano, comunque. Una vita passata a macinare chilometri e a mettere a ferro e fuoco i palchi italiani ed europei ha senza dubbio lasciato il segno. Il concerto di questa sera è esplosivo come raramente se ne vedono. Forti di un nuovo disco riuscitissimo e con le spalle coperte da un repertorio ampio e privo di cadute di tono, i Cheap Wine hanno incendiato il Circolone con una noncuranza disarmante, fregandosene delle sedie sistemate in platea dagli organizzatori e dandoci dentro sin dalle prime battute. Alla fine, su brani storici quali “Shakin’ the cage” o “Reckless” saranno in molti ad alzarsi e a cantare, “costringendo” addirittura la band a prolungare il tema principale dei brani, per dar modo ai presenti di sfogarsi a dovere. 

In un panorama musicale sempre più in crisi, dove al di là dei soliti grandi nomi si faticano a trovare act che possano prenderne il posto una volta che questi non ci saranno più, i Cheap Wine sono come un sorso di acqua fresca (o di vino, se preferite). Eppure, nemmeno loro si illudono sullo stato attuale delle cose: “E’ bello che gente come Bob Dylan, Bruce Springsteen e Neil Young, quest’anno abbiano fatto uscire dischi così riusciti. E’ segno che, nonostante gli alti e bassi degli ultimi anni, loro sono sempre e comunque ad un altro livello. Non saprei dirti se ci sono degli artisti che sarebbero degni di poterne prendere il posto. Di sicuro un altro Dylan non nascerà più. Come potrebbe essere possibile? C’è però anche un problema di fondo: negli ultimi vent’anni si è smesso di valorizzare la qualità e l’onestà e si è iniziato ad incensare il grande evento, il grande personaggio, senza realmente preoccuparsi se fosse realmente valido o no. Ha preso il sopravvento il principio dell’usa e getta e questo ha inciso sulla durata delle singole band.” 

E non è solo un problema strettamente musicale: “E’ colpa anche dei media. Non c’è più nessuno che abbia il coraggio di proporre cose nuove, si va tutti dietro ai soliti nomi che qualcuno ha deciso debbano essere di moda e questo influisce anche sulla curiosità della gente. Oggi sono sempre di meno quelli che hanno voglia di andarsi ad ascoltare cose nuove, alla fine vanno tutti a sentire le solite cover band.” 

Difficile dargli torto, ma è anche vero che ci sono ancora gruppi come il loro, gente per cui vale la pena uscire di casa. Colpiscono la padronanza del palco e l’affiatamento che c’è tra i cinque: molti dei pezzi vengono dilatati da assoli e improvvisazioni varie, con la chitarra di Michele Diamatini e la tastiera di Alessio Raffaelli che si ritagliano spazi consistenti senza mai andare a penalizzare l’insieme. Il risultato è una festa rock lunga due ore e mezza, di cui una larga fetta è dedicata ai brani di “Based on lies”, che alla fine verrà eseguito per intero. Dopo la title track, che apre il concerto un po’ in sordina, colpiscono la botta di “Breakaway”, che in sede live aumenta la sua resa all’inverosimile, la dolcezza della pianistica “On the way back home” le lunghe fughe strumentali di “The stone” e di “The vampire” e ovviamente le scariche di adrenalina di “Give me Tom Waits” (qui rimanere seduti è proprio difficile) o “To face a new day”. Un disco che supera brillantemente la prova del palco, dato che tutti i pezzi sembrano già perfettamente rodati. 

Non mancano ovviamente i brani di “Spirits”: le varie “Pig on a lead”, “Leave me a drain” o “The sea is down” fanno sempre la loro porca figura. Finale affidato ad una “Dance over troubles” letteralmente indiavolata e ad una “Freak show” in cui è il coro del pubblico a farla da padrone. Sembra finita, sono già stati fatti i ringraziamenti di rito, qualcuno sta già dirigendosi verso l’uscita, ma i cinque hanno ancora voglia di suonare. 

E allora via con una lunghissima “Evil Ghost”, dove gli assoli di Michele sono forse i più belli della serata e poi, senza un attimo di pausa (come del resto hanno fatto per tutta la sera!), attaccano “Jugglers and Suckers” che, questa volta sì, manda davvero tutti a casa. 

Me lo aveva detto prima del concerto e adesso le parole di Marco suonano più che mai vere: “La situazione live per noi è in assoluto la più importante, quella dove ci troviamo meglio. Sin dai primi tempi amiamo suonare le nostre canzoni e non temiamo di confrontarci con i modelli migliori, con mostri sacri come Dylan, Springsteen, Neil Young. Chi viene a sentire i nostri concerti e compra i nostri dischi, nella maggior parte dei casi ascolta anche questa gente. Sta dunque a noi offrire un prodotto valido e competitivo a chi ci segue.” Detto fatto: i Cheap Wine di questa sera potrebbero tenere testa a chiunque, anche allo Springsteen indiavolato dell’ultimo tour. 

“Le band come noi che amano suonare dal vivo sono sempre di meno – dicono prima di congedarsi dal loro pubblico – e tirare avanti si fa sempre più dura. Se finiremo per smettere tutti, vi toccherà spendere settanta euro per vedervi i concerti negli stadi.” Non che sia male, dipende sempre da chi ci suona, negli stadi. Ma ai Cheap Wine io non rinuncio. E finché ci saranno loro la musica in Italia non sarà mai troppo in crisi. 

 

(Luca Franceschini)


(Foto in apertura di Renato Ciffarelli)