Ci sono poche certezze nella vita di un italiano medio che resistono al passare di tempo, crisi finanziarie e governi, una di queste è il Festival di Sanremo. Non è riuscito ad affossarlo il suicidio di Tenco, l’era del playback negli anni 80, alcune conduzioni disastrose date in mano a personaggi presi e messi lì dal potente di turno,la vittoria dei Jalisse, l’era del televoto e l’avanzare dei talent. Ogni anno preciso come un orologio svizzero, come il Natale, la Pasqua e il Primo Maggio, arriva in televisione, perché il Festival di Sanremo solo lì sa stare. Perché Sanremo è Sanremo e mai slogan fu più appropriato. Quest’anno però pare ci siano delle novità. Dopo la conduzione rassicurante data in mano a  Morandi, per questa edizione si è puntato su Fabio Fazio, il perbenista di sinistra che non si sbilancia mai. 



Sì, perché negli ultimi anni per capire che canzoni sarebbero andate in gara dovevamo prima capire chi avrebbe condotto il Festival. E così anche quest’anno. Lui al Festival c’era già stato, parlo di Fazio, era il 1999 e sul palco insieme a vecchie e nuove cariatidi che abitano l’habitat Sanremo e che sembra al di fuori di questo la loro sopravvivenza sia nulla (vedi Al Bano, Massimo di Cataldo, Gatto Panceri, Anna Oxa), c’erano anche delle belle sorprese, come Finardi, Daniele Silvestri, Nada. 



Insomma niente di eccezionale, ma quell’anno i Quintorigo con Rospo, che si presentarono tra le nuove proposte, vinsero il Premio della Critica Mia Martini. Forse Fazio un po’ ci aveva provato. Anche nel 2000 un po’ di perle ce l’aveva regalate, Gazzé, Bersani, Alice, Subsonica, che però vennero mangiate come sempre avviene, dalla maggioranza della specie cantante sanremicus, l’animale che vive solo per quel momento e grazie a quel momento attua un accanimento terapeutico alla sua carriera per vedere se un altro anno resiste (Spagna, Mietta, Minghi ecc). 

Però diciamo la verità, due o tre outsider a Sanremo ci sono sempre stati, fin dai tempi di Vola Colomba, perché è politically correct, perché intanto non spostano niente di quello che ci si aspetta dal Festival, perché tanto qualcuno ultimo deve arrivare e puntualmente la critica, che è snob, deve premiare proprio quello. Ma quest’anno in effetti qualcosa forse in apparenza è cambiato davvero. C’è del “nuovo” che avanza, e questo sarebbe il meno, è che quest’anno si è ritrovato ad essere maggioranza. 



Certo è un nuovo virgolettato, perché va inserito nel contesto in cui si trova, un Festival ingessato in una struttura che sembra ormai da anni inamovibile e che non rappresenta certo quello che gli italiani ascoltano o comprano, e se lo rappresenta lo rappresenta in parte, sempre la stessa per altro. Marta Sui Tubi, Almamegretta, Daniele Silvestri, Elio e Le Storie Tese, Malika Ayane, Peter Cincotti, Max Gazzé, Raphael Gualazzi, Simone Cristicchi hanno tutti storie, chi più chi meno certo, degne di nota anche al di fuori della kermesse, non hanno bisogno di questa per dire che esistono nel loro piccolo o grande mondo abitato da un genere ben preciso, che non è solo quello sanremese. 

E per una volta forse si ha la sensazione che non sia esclusivamente la musica ad usare il Festival come mezzo di riconoscibilità, ma che valga il viceversa e di questo un po’ c’è da esserne contenti. Salvo poi capire che quando c’è bisogno di fare una rivoluzione, non ci si può fermare a metà. E allora viene da chiedersi perché? Perché ancora i Modà? Perché ancora ben tre artisti che provengono dai talent? Perché non essere coraggiosi fino in fondo e per una volta dire di no non solo ad Al Bano, ma anche a tutti quei fenomeni mordi e fuggi che stanno distruggendo il mercato discografico? Perché alla fine conta lo share, e lo share lo si fa con i Modà, con Annalisa di Amici o con Chiara, la neo incoronata di X Factor. 

Perché per prime le case discografiche non hanno coraggio a proporre qualcosa di nuovo, che poi andrebbe virgolettato pure questo. Ad esempio dov’è il rap a Sanremo? Dov’è quell’unico fenomeno del momento che fa vendere dischi, che smuove folle di ragazzini? Non c’è. Non c’è perché il rap non ha bisogno di Sanremo per essere e diventare fenomeno e il viceversa lo si vuol far credere valido invitando i Modà. Ma così la cultura musicale stalla perché perde il concetto di democrazia. E’ come se da una parte si volesse osare, ma non fino in fondo, e allora alla fine il tentativo a me sembra superfluo. E l’esempio lampante è la scelta dei giovani in gara. Ce n’erano di bravi, di quelli mai visti a Sanremo, di quelli capaci una volta per tutte di spostare il punto di arrivo culturale musicale. Però come al solito si è deciso, là dove si sarebbe potuto davvero osare perché siamo nel limbo degli sconosciuti, dove share e auditel non sono presi in considerazione, di rimanere a metà, di selezionare dei bravini, che non sposteranno di una virgola il concetto di fare musica in Italia. 

E’ che inutile cambiare le facce sopra il palco, se quelli che decidono chi deve salirci sopra, sono gli stessi da millenni. E allora forse è proprio il sistema Festival che andrebbe abbattuto e ricostruito ex novo per fare davvero rivoluzione, ammesso che la rivoluzione sia ciò che si vuole, certo è che è quello che servirebbe alla musica. Il problema è che finché la musica resterà al servizio della tv, questa rivoluzione sarà utopia. Almeno che tutti quelli che amano la musica bella e che durante il Festival vestono quell’aurea snob, depositino a terra quell’aurea e quest’anno diventino padroni di un televoto del cavolo per dimostrare che ci sono anche loro e che hanno un peso tanto forte quanto quello dei fan dei Modà. Oppure c’è una seconda via da intraprendere: smettere di criticare, rimboccarsi le maniche e creare un altro Sanremo, dove non esiste share ma qualità e che in virtù di quella si riesca ad entrare comunque nelle case di tutti gli italiani. Ma questa forse è più utopia della rivoluzione stessa.

 

 (Barbara Dardanelli)