Quarant’anni fa usciva “Greetings from Asbury Park, NJ”, esordio discografico di Bruce Springsteen. Un disco che, sin dal titolo e con l’aiuto di una copertina quantomeno imbarazzante, metteva in chiaro le origini “operaie” di un artista che non poteva certo vantare provenienze di richiamo come Florida, California o Las Vegas. Era nato in un lembo di terra che si auto definiva fin troppo esageratamente “The Garden State” ma che, almeno dal punto di vista musicale, aveva ben poca voglia di scherzare, se si considera che aveva già dato i natali a gente come Frank Sinatra. 



L’anno precedente ll ventitreenne Springsteen era arrivato alla corte di John Hammond, boss della Columbia Records, entrato nella leggenda del rock anche e soprattutto per avere scoperto un certo Bob Dylan, e gli aveva suonato alla chitarra acustica una manciata di brani. Stando al suo racconto, il potente discografico venne letteralmente folgorato da “It’s hard to be a saint in the city” (una effettivamente ottima versione di questo brano si può ascoltare all’interno del cofanetto “Tracks”, anche se risale a qualche giorno dopo di quella famosa session) e decise di mettere il nostro sotto contratto. 



Era il 1972: si erano da poco sciolti i Beatles, “Deja Vu” di Crosby, Stills, Nash & Young era stato uno dei grandi successi di un paio di anni prima, il punk non era ancora emerso come fenomeno di massa ma era già arrivato il cosiddetto “glam”, con due dischi clamorosi come “Electric Warrior” dei T. Rex e “Space Oddity” di Bowie. Un periodo di transizione dunque, con molte cose che cambiavano e pochi punti fermi: tra questi, i Led Zeppelin lanciati a tutta birra verso una luminosa carriera, i Rolling Stones che in quanto a performance incendiarie erano sempre una garanzia. E poi, ovviamente, Lou Reed e i Velvet Underground, gli Who di Pete Townshend e Roger Daltrey. Il solo Bob Dylan sembrava mancare all’appello: il misterioso incidente di Woodstock lo aveva allontanato dalle scene e anche se “New Morning” non era poi malaccio, i giorni dei capolavori sembravano molto lontani. Sentire il giovane Springsteen che macinava canzoni alla chitarra acustica con una rabbia e una intensità fuori dal comune, deve aver fatto pensare a quelli della Columbia che ci fossero gli estremi per avere sotto mano “il nuovo Bob Dylan”. 



Questo fu dunque lo slogan con cui l’etichetta accompagnò, l’anno successivo, l’uscita del disco. Peccato solo che il giovanotto del New Jersey si dilettasse tutti i fine settimana a buttar giù i locali della zona a colpi di rock and roll: niente ballate folk ma amplificatori a palla sognando Elvis, Chuck Berry e quella gente lì. Risultato: quando negli studi di New York prescelti per la registrazione, al posto di un ragazzino con armonica in tasca e chitarra a tracolla si presentano cinque scalmanati, Mike Appel e Jim Cretecos, che stanno dietro alla consolle, capiscono che le cose non fileranno poi molto lisce.
Ed è forse anche per questo, per essere stato realizzato da gente che non conosceva per nulla quello che stava producendo, che “Greetings from Asbury Park” suona così male. Neppure le nuove tecnologie digitali sono riuscite a rendergli giustizia: dal punto di vista della resa, questo è un disco pessimo, senza una vera e propria direzione. Non a caso vendette pochissimo e di Bruce Springsteen ci si sarebbe dimenticati in fretta se, di lì a poco, non fosse arrivato “Born to run”.

La E Street Band c’è già ma non è ancora quella che i fan di tutto il mondo si abitueranno ad ammirare sul palco nei decenni a venire. Di quella storica formazione ci sono solo il sassofonista Clarence Clemons (ovviamente) e il bassista Gary W. Tallent (uno che, a vederlo, non gli daresti due lire e invece è con Bruce sin dagli inizi). Li affiancano personaggi non proprio secondari, che però forse solo i più appassionati si ricorderanno bene: David Sancious all’organo e il mitico Vinnie “Mad Dog” Lopez alla batteria. Resteranno ancora per un disco, il successivo “The wild, the innocent and the E Street shuffle” ma l’impronta data al primo sound della band è imprescindibile. E le canzoni? Per quelle, in realtà, il discorso è un po’ più complesso. 

Il 22 novembre del 2009 Springsteen e la E Street Band chiusero a Buffalo il tour di “Working on a dream”. In quell’occasione, prima e unica volta nella loro storia, eseguirono per intero, dalla prima all’ultima canzone, quel loro disco di debutto. Fu quella un’ottima occasione per rendersi conto che quei pezzi erano invecchiati bene. Certo, forse non sono proprio tutti così omogenei tra loro, si sente che si tratta di una collezione messe insieme un po’ alla rinfusa e senza criterio ma ci sarà pure una ragione se, su nove di essi, ben sette hanno più o meno sempre goduto di frequenti esecuzioni dal vivo nel corso degli anni. 

Per quanto riguarda i due esclusi, “Mary Queen of Arkansas” e “The angel” anche la serata di Buffalo ha fatto capire che si trattava di episodi trascurabili. 

Ma il resto del disco è da capogiro: l’iniziale “Blinded by the light” ci presenta un artista già maturo, che mischia il trascinante rock and roll di Elvis Presley con versi linguisticamente arditi (“Madman drummers bummers and Indians in the summer with a teenage diplomat” e via di seguito, dove rime e assonanze hanno più valore dei contenuti veri e propri. Un modo di scrivere che Dylan aveva più volte sperimentato nei grandi dischi dei ’60), mentre la successiva “Growin’ up” ci offre un autoritratto divertente e folgorante, che non lascia dubbi riguardo alle sue intenzioni per il futuro: “La bandiera dei pirati sventolava dal mio albero maestro, le mie vele erano spiegate. Ho avuto come primo amico un laureato in jukebox, non sapeva navigare ma sicuramente sapeva cantare. Decollai con un B-52 e li bombardai con il blues e con il mio congegno li costrinsi ostinato ad ascoltarmi. Ho rotto tutte le regole, ho bombardato la mia vecchia scuola, non ho mai pensato di atterrare.” 

E come dimenticare il ritmo irresistibile tra soul e blues di “Spirit in the night”, autentica spina dorsale dell’ultimo tour, che per prima ci ha introdotto al personalissimo New Jersey di Bruce, in bilico tra goliardia e romanticismo, e alla pittoresca umanità che lo abitava? Sono grandi cavalcate rock anche “Does this bus stop at 82nd Street?” o la già citata “It’s hard to be a saint in the city”. O ancora “For you”, una dichiarazione d’amore per una donna la cui “forza è devastante di fronte a tutte le avversità”; un brano che, quando viene eseguito dal vivo dal solo Bruce al pianoforte, è ancora in grado di far venire brividi lungo la schiena. 

E poi c’è “Lost in the flood”. Dovesse esserci un solo motivo per cui possedere questo disco, sarebbe proprio la presenza di questa canzone. Certo, la versione qui contenuta non è bella come quella che fu eseguita tre anni fa a Buffalo e neppure come quella (più facilmente reperibile) del “Live in New York City” del 1999, quando venne tirata giù dagli scaffali dopo quasi 30 anni di latitanza dalle scalette. 

 

Un brano che, per dirla come Vecchioni, ha “fottuto il tempo” in maniera clamorosa, potendosi collocare a buon diritto tra i suoi 30 pezzi più belli di sempre (il sottoscritto la mette addirittura tra i primi cinque). Sostenuta da una base di pianoforte, si staglia una linea vocale tesa e drammatica, che dipinge quadri di una umanità che crede di stare a galla ma che in realtà ha perso la direzione: un reduce di guerra (primo accenno a quel filone antimilitarista che negli anni successivi verrà largamente esplorato), un novello James Dean con la sua macchina da corsa, uno spacciatore ispanico nei bassifondi di una grande città. Tutti “persi nel diluvio” come canta alla fine di ogni strofa. Un testo di eccezionale profondità (lo stesso Springsteen, ai tempi di “The rising”, non si capacitava di aver potuto scrivere parole così a poco più di vent’anni), a cui la E Street Band delle esecuzioni recenti ha conferito la stessa dimensione epica che si ritroverà nei futuri capolavori.

E’ senza dubbio vero che chi si accosta per la prima volta alla musica di Springsteen dovrebbe partire da “Born to run”. Eppure, questi “saluti da Asbury Park” sono a loro modo essenziali per capire come tutto è iniziato e cosa successe dopo. Magari gustandoseli in doppia versione: quella originale di 40 anni fa e quella ben più matura e consapevole della serata di Buffalo. Aspettando la prossima calata italiana… 

 

(Luca Franceschini)