Ad Osaka (o nei suoi pressi) si svolge quella che potremmo chiamare una tragedia borghese. Siamo nel 1703, ma distanti anni luce dal Giappone medioevale dei Samurai , di un Monte Fuji popolato da Dei e da animali feroci del Teatro Kabuki o del mondo stilizzato, rarefatto, intriso di poesia e di filosofia del Teatro No – le due forme di teatro in musica viste più di frequente in Occidente. Siamo in mondo di commercio, di usura e di “case da tè”, in effetti bordelli. Una “cortigiana”, a tutti gli effetti una prostituta di alto bordo, si innamora di un suo giovane cliente, povero in canna che lavora come commesso nella ditta dello zio. Lo zio lo ha destinato ad un’altra fanciulla; la dote è stata già intascata e data in consegna alla matrigna del giovane il quale, ottenutale per riscattarsi dall’impegno assunto in suo nome, non trova di meglio che prestarla, per pochi giorni, a un amico in difficoltà in cambio di una cambiale. Quest’ultimo , invece di mostrare gratitudine, denuncia la cambiale come falsa, fa picchiare il ragazzo, ne combina di tutti i colori nel bordello. I due innamorati non hanno altra scelta che quella di un doppio suicidio d’amore in bosco; si congedano da questo mondo insieme nella consapevolezza che dopo tanto soffrire andranno nel Paradiso buddista della “Terra Pura”.
Questo è “Sonekazi shingu tsuketari Kannon meguri” (Doppio suicidio d’amore a Sonekazi con pellegrinaggio ai luoghi sacri di Kannon), scritto e composto da Chikomatsu Monzeamon, rappresentato, per la prima volta, a Osaka nel 1703 (allora era un’opera contemporanea) ma vietato dallo Shogun venti anni dopo poiché il suo grande successo e la sua diffusione in tutte le isole dell’Impero avrebbero causato una vera e propria epidemia di “doppi suicidi” d’amore da parte di coppie in cui una delle famiglie (o ambedue) si opponevano alle nozze. E’ stato ripreso solamente dopo la seconda guerra mondiale.
L’edizione, vista il 5 ottobre al Teatro Argentina di Roma nel corso di una tournée promossa dal Governo di Tokio per celebrare il cinquantesimo anniversario dell’Istituto nipponico di cultura a Roma e il quattrocentesimo anniversario della prima ambasciata del Sol Levante in Occidente, è curata dal poliedrico artista Sugimoto Hiroschi, che vive tra New York ed il Giappone ed è noto soprattutto per il suo apporto all’arte fotografica e di recente si è rivolto con particolare attenzione al teatro della tradizione, curandone anche scene e costumi.
A differenza del Teatro Kabuki e del Teatro No, “Sonekazi shingu tsuketari Kannon meguri” appartiene al Teatro Bunrako, un teatro di marionette di grandi dimensioni, manipolati a vista. Ciascuna marionetta è mossa da tre manovratori ed in grado di mostrare espressioni del volto e degli occhi. È una delle maggiori espressioni artistiche del Giappone nell’ambito delle arti sceniche. Il Bunraku è riconosciuto come bene intangibile del Paese e designato anche dall’Unesco come Patrimonio Immateriale dell’umanità. Chikomatsu Monzeamo, autore del testo (e forse anche della musica), è considerato lo Shakespeare del Giappone per la prolificità e la varietà dei temi trattati.
Mentre il Teatro No richiede, per essere compreso, profonde conoscenze di filosofia e religione ed il Teatro Kabuki (per certi aspetti volgarizzazione del No) necessita grandi maschere e complessi macchinari scenici, il No può essere considerato una forma più popolare (e più “moderna” dei primi due, nati nel quattordicesimo secolo).
L’uso delle marionette risolve, poi, un problema centrale del No e del Kabuki: il divieto della presenza di attori di genere femminile. Con le scene allora dipinte ma oggi proiettate, si creano i diversi ambienti e si da vita all’atmosfera macera di un’Osaka di viuzze contornate da botteghe di spezie e di case di tolleranza che si alterna con quella serena di sentieri di montagna verso eremi buddisti e di boschi dove ci si annulla nella felicità. Ed una sensuale ignota al No ed al Kabuki ma che esplode della poesia e narrativa, nonché più di recente, nel cinema giapponese.
L’accompagnamento musicale è costituito tra tre strumenti a corda shimisen alla sinistra del palcoscenico, ed un piccolo gong ed un minuscolo strumento a fiato (un mini-flauto) sulla destra. Sempre a sinistra, ci sono i narratori-cantanti: una alla volta nelle prime scene, tutti e tre in quella finale. Sono tre tenori di cui uno un bari tenore in grano di giungere ad una registro molto grave ed uno lirico ma con un registro molto alto (ai limiti del controtenore). La partitura è tutta imperniata su tre note ma riesce molto ricca. I narratori-cantanti in certi momenti danno voce alle marionette , in altri raccontano la vicenda: si va da momenti in quasi si sfiora la melodia dell’opera occidentale ad altri di puro melologo al parlato. Ha assonanze con il barocco dolente di Luigi Rossi recentemente ascoltato a Rimini ne Il Palazzo d’Atlante del Card. Giulio Rospigliosi (poi Papa Clemente IX) che venne messo in scena a Palazzo Barberini a Roma nel 1642 scene di Andrea Sacchi e macchine teatrali di Gian Lorenzo Bernini. Nonostante non ci fossero sovratitoli o l’annunciata traduzione simultanea, in un teatro strapieno, il pubblico ha seguito con emozione questa lontana vicenda di tradimenti, amore e morte.