Nell’agosto del 2009 condivisi la visione del concerto londinese dei Pearl Jam alla O2 Arena con due simpatici fan della prima ora, entrambi al loro concerto cento e qualcosa della band di Seattle. Feroci nostalgici dell’era grunge, passarono tutte le due ore e mezza dell’esibizione ad applaudire e a cantare i brani dei primi due dischi (che quella sera furono parecchi), rimanendo invece seduti e impassibili tutte le volte che la band si lanciava in qualcosa che fosse stato inciso dopo il 1993. Per non parlare dei continui rimbrotti al batterista Matt Cameron, al ritmo di “non ha potenza” e “Dave Abbruzzese era un’altra cosa”. 



Probabilmente loro erano un filino esagerati, ma il resto del pubblico non fu da meno. Boati assordanti all’attacco delle varie “Daughter”, “Evenflow”,”Alive”, “Black”, entusiasmo ridotto al minimo per “Insignificance” (che quella sera fu un’highlight assoluta), “Light Years” e compagnia bella. Persino “Immortality” fu accolta un po’ freddamente. 



E le stesse scene si ripetono più o meno dovunque (Italia compresa), ogni volta che Eddie Vedder e compagni si ritrovano a calcare le scene. 

Detto che, associare ancora i Pearl Jam al grunge è quantomai un’affermazione fuori luogo. Il grunge, per quanto importante sia stato nell’economia della storia del rock, è un fenomeno che è stato breve come una meteora e che è morto e sepolto da un bel pezzo. Tutti i suoi principali epigoni sono oramai stati consegnati alla storia e laddove siano ancora in vita (vedi Soundgarden, Alice in Chains o, più recentemente, Stone Temple Pilots), è semplicemente perché si sono riformati negli ultimi anni, nel tentativo di raggranellare qualche soldo extra per finanziarsi la vecchiaia. 



I Pearl Jam, che piaccia o meno, ci sono sempre stati. Hanno capeggiato alla grande la scena di Seattle, hanno fatto uscire due capolavori che hanno contribuito a definire quel nuovo trend artistico fatto di rabbia, minimalismo musicale e camicie di flanella ma poi sono andati per la loro strada quasi senza colpo ferire, suonando quel che piaceva a loro e fregandosene delle etichette. Me le ricordo ancora, le reazioni scandalizzate di chi, all’indomani di “Vitalogy” diceva che avevano tradito perché quel disco “non era grunge”.

E così, se i Nirvana sono finiti divorati dai fantasmi di Kurt Cobain e i Soundgarden hanno scaricato le pile all’indomani di “Superunknown”, i Pearl Jam sono diventati, zitti zitti, una delle più grandi band della storia del rock. Probabilmente nessuno sarebbe disposto ad ascrivergli un capolavoro datato post 1994 (sebbene per il sottoscritto “No Code” sia il tassello migliore della loro discografia) ma sulle loro devastanti maratone live dovremmo intenderci tutti. Perché un gruppo capace di girare il mondo un anno sì e uno no, salendo sul palco senza scenografie e orpelli di sorta, attaccando la spina e suonando per due ore e mezza tutto ciò che passa loro per la mente, scaletta rigorosamente diversa ogni sera, decisa dieci minuti prima dell’inizio, non è che lo si trovi dappertutto. Sono figli spirituali degli Who, dei Ramones e di Neil Young, dopo venti minuti di un qualsiasi loro concerto lo si è già capito. 

Tutto questo per dire che mi sento un po’ a disagio nel parlare di “Lightning Bolt”, loro decima fatica in studio. Perché se è vero che si corre il rischio di barare sulle cose che si amano di più, io i Pearl Jam li amo davvero alla follia, come ben sa chi ha avuto la sfortuna di vedere la mia reazione dopo la tipica frase: “Ah sì, erano forti ai tempi di Versus”. Eppure questa volta non potrò essere tacciato di eccessiva faziosità perché il disco in questione mi ha abbastanza deluso. 

Sarà anche vero che la loro evoluzione artistica si è fermata a “No Code”, che a partire da “Yield” (1998) sono essenzialmente diventati un gruppo di Classic rock e si sono accontentati di produrre dischi che seguissero bene o male le stesse coordinate stilistiche.

È però altrettanto vero che non ci hanno fatto mai sentire la mancanza di pezzi indimenticabili, anche quando il disco in cui erano contenuti non era un granché (è il caso di “Riot Act”, che pure aveva perle come “Green Disease” e “Love boat captain” o lo stesso “Yield”, che ci ha consegnato due classici come “Do the evolution” e “Given to fly”).

 

Potremmo anche sbagliarci (dopotutto lo stiamo ascoltando da pochi giorni) ma per il momento non sembra che su “Lightning Bolt” ci sia molto di interessante da dire. 

Partiamo dai singoli, visto che sono quelli con cui abbiamo maggior confidenza. “Mind your manners” può anche sembrare interessante, con il suo riff serrato e la sua attitudine punk, ma assomiglia troppo a “Spin the black circle” perché possa apparire sincera. Canzoni come queste i Pearl Jam le scrivono in cinque minuti e le ultime che hanno fatto (vedi “Life wasted” o “Got some”) erano decisamente migliori. 

Poi c’è “Sirens”. E su questa occorre stendere un velo pietoso: Mike Mc Cready, oltre ad essere un estroso e divertente chitarrista solista, è anche compositore di prim’ordine e alcuni degli episodi migliori della loro discografia sono usciti dalla sua penna. Adesso firma una ballata facile e sdolcinata (il ritornello da questo punto di vista è terribile) che sembra fatta apposta per ammaliare (dopotutto di sirene si parla) quelle persone che si regolano su cosa comprare in base a ciò che viene cantato ad X Factor o ad American Idol. Come se i Pearl Jam, dopo vent’anni di carriera, avessero ancora il problema di piacere al pubblico. Per non parlare della prova offerta da Eddie Vedder, al quale credo che l’alcol e l’infinita mole di concerti che ha sulle spalle abbiano definitivamente affossato la voce. 

Se il buongiorno si vede dal mattino, mi è venuto da pensare, non siamo al cospetto di un grande disco. Per fortuna, una volta avuto l’intero lavoro a disposizione, le cose sono un po’ migliorate. Soltanto un po’, purtroppo. 

 

Su “Lightning Bolt” in effetti ci sono delle cose buone, a patto che vi ci si accosti con l’occhio affettuoso del fan e non con quello critico del recensore: l’opener “Getaway” è una botta di groove ed energia non indifferente, con un cantato efficace che rimane in testa subito e che sicuramente farà sfracelli dal vivo. Anche qui, ordinaria amministrazione ma questa volta se non altro funziona meglio. 

Poi c’è la title track, che è un altro pezzo d’impatto, con un’interpretazione vocale finalmente convincente. E citerei anche “Pendulum”, malinconica ballata dai toni crepuscolari, con l’organo dell’ormai imprescindibile Boom Gaspar in evidenza. Lontana dalla commovente bellezza di altri episodi in questo stile, c’è da dire che a prenderla singolarmente si fa sentire volentieri. 

 

Il resto, spiace dirlo, è davvero poca roba. Sono passati quattro anni dall’ultimo lavoro in studio (quel “Backspacer” che, al contrario, suonava fresco e coinvolgente) ma l’impressione è che la lavorazione di questo disco non sia durata più di qualche mese. I Pearl Jam hanno semplicemente messo in fila una serie di canzoni in linea con il loro songwriting recente e le hanno registrate. Hanno chiamato nuovamente Brendan O’ Brien, certo, e infatti il risultato da questo punto di vista è ottimo. Peccato che una buona produzione non serva, quando le canzoni non ci sono.

 

Suona tutto già sentito, tutto troppo lezioso: a parte “Sirens”, nessun pezzo può dirsi veramente brutto ma non c’è profondità, non c’è rabbia, non c’è quella volontà di dare tutto che invece si respira ogni qualvolta i nostri salgono sul palco. È un disco godibile, da un certo punto di vista, ma quando si arriva alla fine si ha l’impressione che non sia successo nulla. Questa, a mio parere, è la cosa più grave. 

“Future Days”, la ballata acustica che chiude il tutto, ne è la conferma più triste. È prevedibile, è esattamente quello che ci si aspettava dai Pearl Jam per l’ultima traccia. Non aggiunge nulla a quello che già sapevamo.

 

Li aspettiamo dal vivo, a questo punto. Sono ormai tre anni che non passano da noi e francamente comincia a sembrarmi un’eternità. Sono sicuro che in questa sede non deluderanno, a patto che Eddie sia in serata positiva. Per il resto, non mi resta che capitolare tristemente: esiste sempre la possibilità che si sia trattato di un passo falso ma è anche il caso di cominciare a considerare l’ipotesi che questo gruppo, in studio, non abbia ormai più nulla da dire.