A Bologna ci si incontra sempre al solito posto: la Feltrinelli sotto le due torri, nel cuore del centro storico. Lo aveva ironizzato pure Enrico Brizzi, che ha ambientato proprio qui una delle scene iniziali del suo fortunato “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” e la stessa cosa era accaduta a Silvio Piumini, che nello stesso luogo aveva iniziato le interviste per il suo “Da qui”, la imprescindibile biografia dei Massimo Volume.
Anche se Lucio Dalla cantava che “nel centro di Bologna non si perde neppure un bambino”, da anni tutti i bolognesi, a chi arriva da fuori ma non solo, danno appuntamento sempre qui, come se fosse l’unico punto di riferimento sicuro in questa tranquilla e meravigliosa città.
Inutile dire che Emidio Clementi ha fatto lo stesso con me. Per la verità, questa volta gliel’ho proposto io, memore di questa tradizione e del fatto che qui ci siamo incontrati per la prima volta, nel giugno di due anni fa. E anche per il fatto che io, a dir la verità, nel centro di Bologna mi saprei perdere, eccome!
Emidio Clementi è uno dei grandi personaggi del rock italiano: scrittore di talento (il suo ultimo libro, “Le ragioni delle mani” è uscito lo scorso anno per Playground), insegnante di scrittura creativa al Dhams di Bologna, è però soprattutto la voce, il bassista e la mente principale dei Massimo Volume, uno dei gioielli più rari e preziosi del nostro panorama musicale.
Arriva puntuale e sorridente, camicia, giacca scura e cappello, un look non molto diverso da quello che ha sul palco. La cosa bella di lui è che, per quanto possa essere un personaggio pubblico, ci parli sempre come se fosse un vecchio amico.
Ci sediamo a un tavolo di uno di quei “caffè letterari” che ci sono a Bologna: un posto semplice e raccolto, con una quantità di libri alle pareti. Il posto ideale per parlare di “Aspettando i barbari” e cercare di capire qualche cosa di più sulla genesi di un disco straordinario…
Senti, non è che mi sia preparato chissà quali domande… L’idea è che quella di farmi raccontare un po’ di questo disco…
Eh no, non pensare di cavartela così (ride)! Cerca di sforzarti un po’ di più…
Ok, ci provo! Ascoltando il disco, ho avuto la netta impressione che la vostra, tra tutte le reunion che ci sono state in questi anni, sia stata quella più sensata. Mentre un sacco di vecchie band si sono rimesse insieme esclusivamente sull’onda della nostalgia e magari per avere un ritorno economico che all’epoca si erano persi, voi avete invece semplicemente ripreso a fare dischi. “Cattive abitudini” era un grosso passo avanti rispetto al passato e questo nuovo lavoro lo è ancora di più. È innegabile che dopo che vi siete riformati avete avuto una crescita artistica incredibile…
Tra l’altro, “Cattive abitudini”, a riascoltarlo adesso, suona veramente lento! Lo stavo sentendo nei giorni scorsi e mi sono veramente stupito. È una cosa che non avevo notato allora…
È la stessa cosa che pensavo anch’io. E infatti credo che “Aspettando i barbari” sia molto più diretto, anche molto più duro. A livello di sound, c’è un lavoro di chitarra molto più marcato, incisivo. E poi è anche più compatto: la sensazione, correggimi se sbaglio è che, mentre col lavoro precedente vi eravate molto dilatati, volevate dire tante cose dopo così tanti anni di silenzio, adesso abbiate preferito andare al sodo e anche premere molto di più sull’acceleratore. Non a caso qui c’è un minutaggio inferiore e anche due canzoni in meno. Che ne dici?
Se penso a tutte le idee che sono venute fuori all’ultimo momento, è venuto molto meglio di quanto ci aspettassimo. Ad esempio c’è una chitarra in “Silvia Camagni”, una slide molto aperta, lirica: quel pezzo per noi era già finito ma nell’ultimo giorno di missaggio a Stefano è venuta questa idea. E’ stato un missaggio molto creativo, ci sono state tante piccole sorprese che hanno reso migliore il lavoro. Anche se, ovviamente, ci sono sempre delle cose che andrei a modificare, se potessi…
Raccontami qualcos’altro della lavorazione del disco: come sono nati i pezzi? Avete pianificato a tavolino la direzione da prendere o avete lasciato che venisse fuori tutto più spontaneamente? Te lo dico perché ho notato che il tutto suona molto diretto, molto duro, sicuramente di più che nei vostri precedenti lavori…
Avevamo in mente una direzione e l’abbiamo tenuta fino alla fine. Poco dopo l’inizio delle prove, il disco aveva preso una certa strada che ci piaceva e che abbiamo deciso di tenere. Abbiamo sempre visto “Cattive abitudini” come un disco caldo, anche se poi l’abbiamo registrato in analogico. Questa volta volevamo cambiare direzione e fare un disco che fosse il più freddo possibile. Abbiamo gestito separatamente le varie tracce, per lavorare cromaticamente sui suoni, per avere tutte le possibilità che il digitale ti dà. Volevamo un disco tignoso, che non cadesse mai di tono, che non desse respiro. E infatti, non a caso, è venuto fuori il disco più duro che abbiamo mai fatto.
E’ stato anche strano perché di solito il disco prende la sua strada spontaneamente mentre stavolta siamo riusciti a tenere le briglie tirate per farlo andare dove volevamo noi. Ci sono state anche delle discussioni all’interno del gruppo, il rischio di diventare troppo ideologici sulla direzione da prendere l’abbiamo anche corso, a tratti. Alla fine però ha vinto questa posizione e ci siamo pure permessi di scartare delle soluzioni che sarebbero state belle ma che c’entravano poco col disco che stavamo facendo.
Insomma, volevamo che fosse un po’ come un sasso scagliato contro una finestra e così è stato, devo dire.
Stefano (Pilia, il secondo chitarrista, entrato nella band in occasione della reunion NDA) c’entra qualcosa in tutto questo? So che ha un background più heavy rispetto a voi…
Ci ha messo del suo, certo. Però è stata un’idea di tutti e quattro, non direi che qualcuno di noi è stato preponderante rispetto agli altri…
E che mi dici riguardo alla lavorazione? Come sono nati i vari pezzi? E’ stato più lungo del solito o ve la siete cavata in fretta?
E’ stato un processo più lungo del solito. Il processo creativo si è svolto più o meno come al solito. Normalmente mi riservo di tenere la barra del timone, però partiamo sempre da un riff che elaboriamo, c’è un lavoro iniziale di tutto il gruppo che è molto grezzo, poi ognuno si specializza in qualche aspetto particolare: l’arrangiamento, la registrazione, ecc. Stefano, ad esempio, è molto bravo su questo ultimo aspetto e il suo contributo è stato prezioso.
Dicevi che è stato un lavoro più lungo…
Sì, ma anche molto snello, da un certo punto di vista. Io ho registrato quasi tutte le voci a casa, nel mio soggiorno. Ho registrato il basso da solo, senza gli altri C’è stato un momento in cui avevamo tutte le tracce pronte, tutti i pezzi registrati, ma era come essere in sala operatoria con davanti un uomo tagliato a pezzi. Bisognava ricucire! E lì, sinceramente, non sapevamo cosa sarebbe successo, se questo si sarebbe alzato e avrebbe cominciato a parlare oppure no. Alla fine è successo un miracolo, però è stata dura!
E che mi dici del team di produzione?
Insieme a noi ha lavorato Marco Caldera, il nostro fonico. Non era alla sua prima esperienza in studio col gruppo perché aveva già fatto lo split coi Bachi da Pietra. All’inizio in realtà ci eravamo orientati su un produttore esterno. C’è stata una fase in cui abbiamo provato a pensare dei nomi ma non ne veniva fuori nessuno che andasse bene a tutti. Allora ci siamo orientati verso questa formula autarchica, ambiziosa, se vuoi anche pericolosa. Però è andata bene, abbiamo dimostrato di sapere anche confezionare le canzoni, oltre che a scriverle. Poi Marco è bravo: è molto giovane, viene dal mondo dell’elettronica, e in questo senso è diverso da noi. Però è attento, curioso, tutte qualità che in questo lavoro sono importantissime…
In effetti c’è un po’ più di elettronica in questo disco… dipende da lui?
Sì, sono cose che avevamo già in mente e che lui ha avallato. Marco ha capito questa nostra idea di fare cose anche un po’ diverse dal nostro solito. Abbiamo mixato nel suo studio a Brescia, ci siamo trovati bene. Se devo essere sincero, mi è mancata un po’ l’atmosfera del disco precedente: avevamo affittato una villa sul lago e abbiamo registrato lì, passando un bel po’ di tempo insieme in un’atmosfera molto rilassata. E’ stato un periodo della mia esistenza che ricorderò sempre. Qui invece è stato tutto più sparso, più diluito nel tempo. Abbiamo avuto il problema di Stefano, che è stato in tour con Rokia Traoré per cui tornava, registrava le sue chitarre, nel frattempo stavamo ancora finendo i pezzi…
Insomma, è stato un processo lunghissimo e insieme convulso, siamo arrivati alla fine che ci mancavano due pezzi ancora da scrivere però nel frattempo era due anni che lavoravamo sugli altri… un bel casino!
Eppure pare che tutta questa fatica abbia pagato. A mio parere “Aspettando i barbari” non è solo un disco bellissimo ma anche un enorme passo avanti rispetto al passato. Forse questo è presto per dirlo ma: potremmo essere di fronte al vostro disco più bello di sempre?
Probabilmente sì. Però, molto sinceramente, te lo direi anche se non ne fossi convinto. Col disco che deve uscire, non potrei certo dire diversamente! Però sì, dai! E’ un disco duro, certo, ma lo sento anche molto più aperto, più comunicativo.
E’ un lavoro meno chiuso in sé stesso, meno autistico di quello che invece poteva essere il nostro percorso passato, che flirtava un po’ con l’autismo, in alcune occasioni. Siamo diventati più consapevoli, forse. L’idea che abbiamo avuto, di prendere una direzione e tenerla, denota maggior sicurezza, una fiducia maggiore nei nostri mezzi. Le chitarre poi sono meravigliose! Sai quante ce ne sono, di volta in volta: dieci o dodici!
E dal vivo come farete?
Eh! Sarà un bel problema (ride)! In realtà non abbiamo ancora iniziato a provare… vedremo, speriamo che non vadano perse troppe cose, nel passaggio dal disco al palco…
Parlando sempre delle chitarre: effettivamente il lavoro svolto è notevole. Ci pensavo in questi giorni: si potrebbe dire, usando un’immagine un po’ azzardata, che Egle Sommacal sia il Johnny Marr della musica italiana? Voglio dire, il suo stile è assolutamente unico…
E’ vero! Del resto è uno dei suoi chitarristi preferiti. Egle ha uno stile personale, riconoscibilissimo, dopo trenta secondi capisci che è lui e fa sempre delle cose che non sono mai meno di bellissime. Comunque siamo molto fortunati: abbiamo in formazione due tra i migliori chitarristi d’Italia!
Credo sia giunto il momento di parlare dei testi. In realtà non saprei davvero cosa chiederti: mi sono piaciuti talmente tanto che avrei voglia di sviscerare ogni dettaglio…
Stanno meglio insieme testi e musica rispetto a prima, non trovi?
Direi proprio di sì. Infatti si può dire che sei migliorato nel recitativo, in precedenza, soprattutto nelle vostre prime cose, a tratti si correva il rischio che la voce suonasse semplicemente sovrapposta alla base musicale…
Ho usato anche un po’ più di rime, questa volta. All’inizio mi sentivo un po’ ridicolo ma poi mi sono accorto che funzionava! Comunque, come anche l’altra volta, i testi sono l’ultima cosa ad essere stata scritta: abbiamo completato prima tutte le musiche e solo dopo mi sono occupato dei testi. Altre volte, in passato, avevo fatto diversamente ma questa volta ho lavorato sempre così.
Cominciamo dalle tre che mi hanno colpito di più: “La cena”, “Aspettando i barbari” e “La notte”…
“La cena” è il primo che ho scritto, è un pezzo criptico, apparentemente, ma parla di mia madre, della mia famiglia. Quel “madre” è molto più diretto, concreto di quel che sembra. E’ un pezzo legato molto anche a San Benedetto (Del Tronto, paese natale di Clementi NDA), che mi ispira sempre tanto, che gira o rigira c’è sempre, nelle cose che scrivo. Via dei Tigli infatti è una strada della città, vicino al porto. E quel “Devoto a nessuno, votato alla fuga” ero io a quel tempo.
Ma quindi anche “Il piatto freddo della cena”, che io pensavo avesse più un senso simbolico, allegorico, allude a certi momenti della tua vita famigliare che avevi già descritto ne “L’ultimo dio”?
(Fine prima parte. Continua)