A chiusura di una buona stagione di lirica, concerti e balletti, il Teatro dell’Opera di Roma propone sino al 31 dicembre la Turandot di Giacomo Puccini, nell’edizione di Roberto De Simone, con un suggestivo impianto scenico di Nicola Rubertelli e sgargianti costumi di Odette Nicoletti che ha inaugurato, nel 2009, la riapertura del Teatro Petrozzelli di Bari. L’opera manca dal Teatro Costanzi, sede principale dell’istituzione, da circa 8 anni, ma si era vista, in una versione che la aggiornava all’età pucciniana, alle Terme di Caracalla.
Per molti aspetti, Turandot è una summa dell’esperienza politica, culturale e musicale. E’ rimasta incompiuta, ma solo i musicologi sanno che smise di comporla un anno prima di morire arrovellandosi su come sarebbe dovuto essere lo “scioglimento” della “principessa di gelo”. In effetti, gli ultimi anni della vita di Puccini furono complicati non soltanto da vicende private di amori adulterini con la cameriera di casa, ma anche da travaglio politico. Era approdato al Partito Nazionale Fascista (PNF) di cui era il numero due della Federazione di Viareggio. Ottenne un’udienza dal Capo del Governo e gli presentò un piano per costruire un Teatro dell’Opera modernissimo a Via IV Novembre, dedicare il Costanzi al balletto, nonché un finanziamento per una tournée di opere italiane a Londra. Mussolini gli offrì un caffè e rispose secco: “Maestro, non c’è una lira”. Probabilmente per il compositore sessantenne, che si era tenuto in disparte durante la prima guerra mondiale, l’iscrizione al PNF voleva dire solo ricerca dell’ordine, di cui aveva bisogno per comporre.
Aveva, però, vissuto in un’Italia travagliata dalla febbre della politica – l’età giolittiana, il trasformismo della sinistra di Depretis, la prima guerra mondiale, le vicende che portarono all’avvento del fascismo. Il travaglio politico si percepisce appena neanche in “Tosca” (la prima opera italiana del Novecento) dove la stessa ambientazione romana lo facilitava. Scelse i suoi argomenti o in favole lontani (Egdard, Le Villi, Turandot) oppure in letteratura straniera (Manon Lescaut, Bohème, Butterfly, Il Tabarro, Fanciulla del West, la stessa Tosca). Partecipò da giovane a movimenti culturali della Milano “della contestazione” (di fine Ottocento) ma non prese mai parte attiva alla politica (e non accettò gli inviti di colleghi della “scapigliatura” a iscriversi al nascente partito socialista; era povero ma si considerava borghese) o, per quel che ne sappiamo, se ne interessò. Fu molto partecipe invece ai movimenti culturali e musicali dell’epoca, dal tardo romanticismo che impregnò la sua opera meno riuscita Edgar, al verismo letto in modo quasi espressionista in Manon Lescaut, Bohème e Tosca, alle influenze della musica orientale (Butterfly e Turandot), alla “nuova” musica americana (Fanciulla del West, Trittico) a Strauss e Debussy (La Rondine e per l’appunto Turandot). Era anche molto attivo nei movimenti culturali: dal “liberty” o “art déco” con il suo tocco floreale orientali alla psicoanalisi (che già fa capolino in La Rondine).
Questa premessa credo aiuti a comprendere Turandot in scena a Roma. Un unico ambiente – il mausoleo dell’esercito di terracotta di Xian -, con costumi coloratissimi del popolo e della corte giustapposte alla tinta terracotta dei soldati, un “finale” alla morte di Liù (ossia quando Puccini terminò di comporre e senza il duetto composto, sulle tracce lasciate dall’autore prima di Alfano, poi modificato da Toscanini ed infine da Berio). Mancando lo “scioglimento” e la scena d’amore con cui termina il libretto, si percepisce ancora di più il carattere freudiamo di Turandot, coeva e sorella delle tre protagoniste di Elektra di Strauss. Ha subito un trauma da bambina, forse un tentativo di violenza in un contesto (l’Impero Cinese) tanto ordinato da sembrare il fascismo) che le impedisce di avere rapporti d’amore sino a quando non trova un uomo molto più forte di lei e persone in grado di spiegarle l’amore. In breve, una sintesi di tutta la cultura degli Anni Venti del secolo scorso.
In questo quadro di lettura, efficace la regia di Roberto De Simone e –come si è detto- suggestivi l’impianto scenico di Nicola Rubertelli e i costumi di Odette Nicoletti. Raffinata la bacchetta di Pinchar Steinberg che tende, però, a sonorità alte da coprire le voci. Di livello il cast vocale guidato da Carmela Remigio (in grande spolvero), Marcello Giordani (un po’ brunito) e Hevelyn Herlitzius (con difficoltà di dizione), nonché il coro diretto da Roberto Gabbiani. Il pubblico della prima si aspettava il finale “di Alfano” e non ha apprezzato la dizione della Herlitzius, grande specialista di Wagner Strauss ma forse per la prima volta alle prese con Puccini e con un testo italiano.