Non è il momento di ricordare cosa ha fatto Lou Reed, in una carriera che iniziò nella metà degli anni sessanta, e si è spenta ieri, nel preciso istante in cui il suo cuore ha cessato di battere. Per tanti Lou Reed è legato ad una canzone, “Walk On The Wild Side”, un successo commerciale che lo impose all’attenzione del circo massimo del rock’n’roll in quell’oramai lontanissimo 1972, prodotto dal talento di un David Bowie che viveva il momento magico della fama con il suo alter ego Ziggy Stardust.
Come un angelo dalle ali spezzate, Lou era volato da New York per Londra, con una valigia carica di storia, illusioni e delusioni, e la maledettissima sensazione di avere dietro le sue spalle qualcosa di così importante che quasi nessuno aveva potuto conoscere. Tanto conosciuti ed apprezzati a New York dalle correnti artistiche d’avanguardia legate al genio di Andy Warhol, i Velvet Underground erano quasi anonimi, sconosciuti se non addirittura disprezzati in tutto il resto degli States, complice una industria discografica che aveva scoperto in Frank Zappa e nelle sue “Mothers Of Invention” un “prodotto” più consumabile – anche in chiave di musica “alternativa”- delle agghiaccianti ballate velvettiane, rese ancora più “stridenti” e “dissonanti” da liriche mai così dirette, che spalancavano le porte di un mondo “borderline” che il pubblico U.S.A. si rifiutava categoricamente di osservare.
Arrivò il successo, un contratto con la RCA, e l’inizio di una carriera discografica solista che avrebbe fatto di Lou Reed un’icona della trasgressione, un feticcio da venerare o da esorcizzare, a seconda che lo si amasse o lo si detestasse. Album incredibili, in cui il rock’n’roll venne vivisezionato, dilatato, preso a calci e a pugni come si fa con un’amante che ti tradisce in continuazione, ma che si ama maledettamente, perché sì, quella musica, quella chitarra che Lou aveva persino dimenticato come si suonava, era la sua ragione di essere, la sua vita.
Un rapporto quasi carnale, di amore e di odio, velato a volte di malinconia, di rabbia, di autentico furore. E non bastarono le interviste troncate e le camere di albergo devastate. I concerti che, organizzati per fare di lui quella “fottutissima star del rock”, lui stesso irrideva con ferocia e con scherno. “Feci quello che la gente si aspettava da me, come ho già detto volevo diventare celebre per poter essere il più grande stronzo in circolazione e sono riuscito anche a ispirare dei grossissimi stronzi, perché la mia merda è molto meglio dei diamanti degli altri”. Fu forse per questo che al culmine del suo successo commerciale registrò “Metal Machine Music”, quattro facciate di suoni elettronici che derivavano dai feedback di una chitarra elettrica, presentandolo sulle note di copertina come il lavoro migliore che avesse mai registrato. Ironia volle che quell’album, per quasi tutti inascoltabile e inascoltato (chi scrive si cimentò nell’ascolto completo lo stesso giorno dell’acquisto, e per una settimana rimase chiuso in casa in rigoroso silenzio), divenne nel tempo una sorta di album di culto, tanto da venire citato da vari gruppi come fonte di ispirazione.
Gli anni passarono fra album eccellenti e altri poco memorabili, durante gli anni ottanta, fino al manifesto della sua arte, di quella musica scarna ed essenziale, che faceva da perfetta colonna sonora per le storie dedicate alla sua città. “New York”, uscito nel 1989, fece conoscere Lou Reed ai giovani che si affacciavano sul mondo del rock dopo il crollo del Muro di Berlino. E proprio insieme all’album dedicato alla capitale tedesca, uscito nel 1973 e censurato in molte delle sue parti strumentali, da parte di una RCA che avrebbe preferito un “Transformer numero 2”, New York rimane il suo album più riuscito e più amato dall’autore.
Tutta la sua musica era coerente con la sua personalità. Non conosceva mediazioni, né conciliazioni con l’ascoltatore. Il suo ultimo lavoro, “Lulu”, registrato insieme alla band dei Metallica, rimane il miglior testamento della sua concezione del rock. Elettricità, avanguardia, poesia, recitazione. In Lou Reed tutto questo si fondeva e si trasformava in una sorta di laboratorio alchemico, sublimandosi nelle canzoni, a volte brani lunghi e ipnotici, come l’incredibile “Street Hassle”, dove linguaggi sonori differenti si legavano contorcendosi sulle movenze di un tragico minuetto, dove Lou raccontava gli incubi della notte, in cui a un certo punto faceva capolino anche la voce di Bruce Springsteen. Le sue scelte di vita, la descrizione della tossicodipendenza, mai vista come una forma di “liberazione”, ma vissuta sulla propria pelle con il cinismo e la disperazione di chi trovava nell’eroina la propria musa, tanto da dedicarle una canzone tanto bella quanto tremenda, quella “Heroin” che apriva la seconda facciata di quel primo album dei Velvet Underground. I rapporti di amore-odio con tutti gli artisti con cui si trovò a collaborare: da John Cale a David Bowie, passando attraverso un rapporto morboso e tormentato con la splendida Nico, imposta da Andy Warhol come membro dei Velvet. Tutto fece di Lou Reed un artista difficile da affrontare e duro da digerire. Ma quella sincerità disarmante, che gli fece ammettere “I guess that I’m dumb and I know that I ain’t smart, but deep down inside I’ve got a rock’n’roll heart”, ce lo rendevano affascinante, le sue canzoni diventavano le nostre, la sua voce che narrava il buio e la perdizione, quasi per una angelica catarsi, ci scatenavano nel cuore la ricerca della luce. “I’m beginning to see the light”, la luce che squarciava le tenebre, e anche le nostre esistenze di adolescenti confusi, come per magia, venivano salvate dal suono e dalla rabbia del rock’n’roll.
Il mio ricordo personale è legato a due concerti.
Il primo a Bologna, nell’estate del 1980, era la tournée di “Growing Up In Public”. Quasi un pomeriggio trascorso sull’erba del Dallara, sotto il palco. Facevo parte della folla di giovani della mia generazione, che era appena uscita ( o sopravvissuta) dagli anni settanta. Ci sembrava un sogno poter assistere finalmente ad un concerto di Lou Reed, dopo i fatti nefasti che erano accaduti al Palalido di Milano cinque anni prima, quando Lou abbandonò il palco furente, dopo appena due brani, a causa dei disordini delle “solite” minoranze organizzate. Ero proprio sotto il palco, quando apparve vestito completamente di nero, lo sguardo quasi rapito dall’immagine e dall’atmosfera di uno stadio intasato di persone che erano accorse solo per lui, dopo averlo atteso invano per anni. Bastarono le prime tre note di Sweet Jane a farci schizzare in piedi.
Sentii dentro di me una scarica di adrenalina. Come se qualcosa che era stato compresso per anni, venisse di colpo liberato in un istante. Come una diga, che improvvisamente crollava. (“Standing on a corner, suitcase in my hand”) e mi ritrovavo a cantarla anch’io, e non sapevo se ridere per la gioia o piangere per la commozione.
Il secondo concerto fu a Piacenza. Gennaio 2005. Era il suo “Winter Tour”. Lou si esibì con la sua band al Palabanca. Anche quella volta ero sotto il palco. Lo vidi salire lentamente gli scalini, prendere la sua chitarra e mettersela a tracolla. Il suo volto era segnato dagli anni. Il suo sguardo era lo stesso di tanti anni prima. Iniziò con “Paranoia Key of E”, proseguendo il concerto con una scaletta di brani scelti dalla sua produzione più recente, escludendo di proposito tutti i brani più celebri. Fu incredibile: canzoni che sugli album apparivano quasi anonime, in quel concerto furono stravolte, rivitalizzate, irrorate di energia e di un’elettricità che le trasformava, restituendocele come nuove gemme della sua produzione sconfinata. E venne il momento del bis. Lou ritornò sul palco, riabbracciando la sua chitarra, e stavolta le note erano ancora quelle che mi avevano fatto martellare il cuore in quella notte di venticinque anni prima.
“Standing on a corner, suitcase in my hand”…
Quella valigia è ancora nella tua mano, Lou, carica di sogni e di incubi, di cinismo e di rabbia e di quella dolcezza infinita che solo chi ti amava sapeva leggere in ogni tua canzone .
Stavolta non ritornerai.