Ieri maga di suoni, di piccoli grandi voli armonici, di atmosfere trasognate e smaniose.  Oggi illusionista del pop che gioca a rubamazzetto con i grandi del mainstream, bluffando e riaffilando le armi, svicolando e giocando a tratti al re-load di vecchie note gloriose.

Elisa Toffoli da Monfalcone è qui oggi come prova vivente di quel distacco graduale, drammatico e inarrestabile che segna a livello planetario il rapporto prodotto/artista in questi ultimi tre lustri di musica.  L’artista vero trapassa e conquista spazi segreti posti nella profondità di cuori tormentati alla ricerca permanente del tesoro della vita, spiazzando tutti, ascoltatori, recensori e manovratori della giostra musicale.  Questi ultimi presto o tardi si riprendono quegli spazi schiacciandone le velleità sotto la dittatura moderna della produzione, all’insegna della sedazione di un suono che retrocede da esplosione di vita a confortevole rituale domestico.



L’accomodamento sonoro, lo stare sul chi vive, l’integrazione al passo con i tempi, in una parola la lenta e inesorabile avanzata dei terribili mutanti dell’industria discografica, di quegli aironi del consenso forse meno potenti di un tempo ma abili a riciclarsi nelle forme più impensabili e diaboliche.  E con quella lenta avanzata, il passaggio sottile e quasi impercettibile dall’arte alla mistificazione.



Tutto questo sarebbe già perfettamente compiuto con il nuovo lavoro dell’artista friulana se non fosse per quella scheggia che si insinua ancora impazzita e vitale nell’abilità di scrittura che trasuda ancora quell’intima ribellione che l’ha partorita, che non si rassegna alla grigia e benestante normalità d’intenti ed espressioni.

Ed ecco allora un disco moderno, omologato ma non troppo, garbato ed effervescente che non lesina momenti di sincera interrogazione, anche se perlopiù giocato su coordinate perfettamente funzionanti e studiate nel minimo dettaglio,  diviso in aree di influenza così diverse eppure così vicine per quella certosina rincorsa all’uniformità cercata in fase di realizzazione. Produzione non a caso affidata a Davide Rossi, astutissimo e navigato stratega delle recenti sortite di nomi sulla cresta dell’onda e soprattutto degli ultimi Coldplay cui il disco di Elisa sembra ad ampi tratti gemellato quanto a situazionismo sonoro.



In apertura un’agile e rapida sequenza di tre canzoni che conquistano per immediatezza di appeal e semplicità delle trovate.  Una leggerezza con gusto che ci accosta a queste piccole arie come a qualcosa di conosciuto da sempre.  Scorrono senza soluzione di continuità i coretti smaliziati di Lontano da qui, irrompono le atmosfere cariche di Pagina bianca dove la scrittura di Elisa si salda ad una produzione ineccepibile che unisce ultimi Coldplay all’Adele di Set Fire to the Rain, fino alle sfrecciate sentimentaloidi di Un filo di seta negli abissi.

In definitiva un buon inizio che tuttavia è seguito dalla fase più ordinaria e prosaica del lavoro dove la title track altro non è che una epic-dance di riporto, Maledetto Labirinto un ghiribizzo elettronico da solaio e A modo tuo l’ennesimo esercizio di autografia di un Ligabue reso appena più piacevole dal vestito pop approntato dalla nostra.

La parte centrale esibisce le due facce diametralmente opposte dell’Elisa di oggi.  Da un lato due scaltre, godibilissime e centrate hit-oriented songs, dall’altra un ritorno di fiamma al respiro epico della prima maniera.  

Così Specchio riflesso mescola la dolcezza affabile della strofa a un ritornello che ammicca senza freni.  Speculare ad essa una E scopro cos’è la felicità dove la nostra duetta con l’onnipresente Tiziano Ferro (autore del testo dedicato alle scoperte continue della maternità) in una pop song arrembante che aggiorna il file delle melodiose corali del Venditti anni’80/90.

Sul versante opposto Ancora qui memorabile e toccante piece nata da un incrocio fulminante di strade e visioni complementari sulla musica e sul canto.  Armonie a strati continui di archi e pianoforte vanno a comporre l’ennesimo grande tema del maestro Morricone, la nostra lo riveste di una vocalità tra il celeste e l’ascetico e di liriche che sanno di grazia, rimpianto e scorci di eternità.  

E’ il classico “vale da solo il prezzo d’acquisto” che tuttavia non si impossessa definitivamente della scena.  L’Elisa di oggi è quella delle figurazioni immediate a presa rapida,  non necessariamente banali e tuttavia neppure marchiate dalle vivaci e fascinose intuizioni di ieri e dell’altro ieri.  

I due brani conclusivi – Non fa niente ormai  ed Ecco che –  confermano l’orientamento attuale.  Cenni rapidi all’epoca d’oro della musica – sixties e seventies – (l’organo fasico che fa da intro a Non fa niente ormai), le rapide vie di fuga verso un intrattenimento dalla resa garantita. 

Oggi c’è ancora – oltre alla bellissima e distintiva voce – il conforto di una scrittura che scorre sicura.  Domani chissà, forse la nostra si troverà a un bivio.  E allora verrà il tempo per fronteggiare nuovi rischi e sfide o per consegnarsi nelle mani avide della produzione musicale, l’ultimo grande tiranno della modernità rimasta senza note.