Ecco la seconda e ultima parte dell’intervista a Emidio Clementi dei Massimo Volume.
Sì. Certo, mentre scrivevo mi è venuto in mente che molte di queste immagini avrebbero potuto essere interpretate in senso metaforico. Però ho voluto dire cose ben precise, sono immagini concrete…
“Aspettando i barbari”, dicevi? Anche per me quella è una delle più belle. Soprattutto mi piace la chiusa finale, quando i protagonisti si acconciano in onore dei barbari…
Mi è venuto in mente quell’episodio raccontato da Tito Livio, quello dei senatori romani che scelgono di morire seduti sui loro scranni, quando i Galli arrivano sul Campidoglio nel IV secolo A.C…
E’ un pezzo molto letterario: ci sono Kavafis, Baricco… era un po’ pericoloso forse, ma poi alla fine mi sembrava bello lo stesso mettere tutte quelle citazioni…
Ma questi barbari? E’ possibile leggerci dietro un certo simbolismo riguardo all’attuale situazione economico-politica?
Non ho idea di chi siano i barbari. Ognuno ha i suoi, credo. Possono anche essere letti in positivo, come sinonimo di cambiamento, in un certo senso. Ma diciamo che c’è una maschera, dietro ci sono inquietudini, attese. E probabilmente, sì, potrebbe essere legata anche a questo periodo particolare. Però non è una cosa che avevo chiara in mente quando l’ho scritta…
L’immagine delle orme che portano al giardino di casa e quel “Non te l’ho mai detto” riferito ad esse mi è parsa molto buzzattiana…
Vero? Sono contento! Buzzati mi piace molto. C’è un po’ anche l’atmosfera de “Il deserto dei Tartari”. Ma in generale mi piaceva molto quell’atmosfera sospesa, in cui non capisci se siamo nel passato o nel presente. Anche Dylan lo ha fatto: certi pezzi sembrano ambientati nel West poi entra in scena qualcosa di più moderno e ti sconvolge tutto…
E poi c’è “La notte”: un pezzo letteralmente sconvolgente…
“La notte” è bellissima, però quando l’ho scritta mi sono detto che era troppo Massimo Volume. Volevamo anche scartarla ma poi ci siamo detti che era bella e che valeva la pena tenerla.
E’ un collage di persone. Ho preso un po’ di qui e un po’ di là, tra alcune delle persone che conosco, non per forza legate tra loro. Il mio migliore amico di San Benedetto si è operato al cuore, ha avuto lo stesso problema di Cassano, poi ho il mio medico che ha questo monitor con una webcam aperta su Mykonos, un’immagine che ha bisogno di guardare sempre perché dice che altrimenti impazzisce. Tra l’altro poi è lo stesso medico di Vasco Rossi, è un tipo molto particolare, simpaticissimo. Gli ho detto che era finito in una mia canzone ed era contento! Al 70% direi che si tratta di persone e di fatti veri, poi mi sono preso qualche licenza qua e là…
Ecco, diciamo che sarà una di quelle canzoni che sarà un bel problema ricordarsi dal vivo: troppi nomi! E pensa che il finale era anche più lungo! Avevo messo dei personaggi in più ma alla fine mi sono accorto che erano troppi! Ogni tanto mi succede, durante i concerti: mi dimentico le parole di qualche canzone, mi giro verso Vittoria (Burattini, la batterista, NDA) e le dico: “Come fa questa?” (ride NDA) E poi io sono cieco, ormai. D’altronde però mi vergogno a salire sul palco con gli occhiali. La prima volta che li ho messi, Vittoria mi fa: “Ma che sfigato sei?” (ride NDA)
E tu invece? Quanto c’è di te nell’io narrante della canzone? Aspetti veramente la notte, come canti alla fine?
Mi piaceva questa posizione un po’ più defilata, protetta, forse anche avvantaggiata rispetto a quello che vedevo attorno a me. La notte qui non deve essere intesa come la morte…
E il tuo pezzo preferito, qual è?
Il mio pezzo preferito? Forse “Silvia Camagni”, perché parla di una mia amica… E’ una che ha avuto una storia molto particolare, è andata via di casa a sedici anni, adesso vive a Berlino. Le ho sempre detto che avrei voluto scrivere un libro su di lei ma poi ci ho fatto una canzone: mi è sembrato un modo migliore per fotografarla…
Mi piace molto anche “Da dove sono stato”: è un pezzo che ricorda molto Whitman: ha scritto una poesia in cui ringrazia tutti gli autori che lo hanno influenzato ma poi dice basta, di lasciarlo da solo perché deve buttarsi a capofitto nella vita. E io ho fatto lo stesso: ho messo dentro tutto il mio pantheon personale di personaggi, concreti e letterari, tutti quelli a cui in qualche modo devo qualcosa.
Pensa che è nata da una session fatta a fine prove e che è rimasta sepolta lì, per un sacco di tempo. Poi ci mancava un pezzo e in qualche modo è venuta fuori di nuovo e ci siamo accorti che era bella. Nel frattempo avevo scritto quel testo e abbiamo notato che si sposavano bene. Ed è anche uno dei tre pezzi che abbiamo registrato insieme in presa diretta. L’altro è “Aspettando i barbari” e poi c’è “Dio delle zecche”, che apre il disco…
Eh, quella è bellissima! Da dove hai preso l’idea?
E’ Danilo Dolci. Non c’è nemmeno una parola mia, nel testo: è un cut up fatto da un suo libro. Lo conosci? E’ un utopista del ‘900, si era trasferito in Sicilia dove ha messo su una cooperativa, lavoravano la terra e lui scriveva. Era un tipo molto interessante, credo che i suoi libri si trovino ancora in giro. Tra l’altro a questa canzone è legato un episodio divertente: stavamo a Brescia per il missaggio e una sera c’era Cesare Basile che suonava. Siamo andati a sentirlo, lui a un certo punto accorda la chitarra e fa: “Per questo pezzo ho utilizzato un testo di Danilo Dolci”. E io: Ma porca miseria, no!” (ride NDA).
Gliel’hai detto?
Certo! Tra l’altro mi ha anche dato qualche dritta per contattare il figlio e chiedere il permesso di utilizzare gli scritti…
Ma “Dio delle zecche” è per caso una citazione de “Il signore delle mosche” di William Golding?
Potrebbe essere… quando è uscito il libro di Golding?
Non so l’anno preciso, ma credo nei primi anni ’50…
Allora sì, è probabile. Tieni conto che Dolci muore negli anni ’70, ha sicuramente scritto dopo…
In questo disco ho messo dentro tanti utopisti. Anche Fueller, questo architetto visionario che ha creato forme strane, le Dymaxion, ha fatto anche delle macchine, molto particolari. Mi piaceva mettere dentro chi ha sognato e ha reso reali i sogni, credo sia una cosa meravigliosa…
Quindi anche Vic Chestnutt, immagino. Ti confesso che è un artista che conosco pochissimo…
Sì certo, anche lui! Ascolta “At the the cut”, secondo me è il suo disco migliore. Aveva un handicap nelle gambe e nelle mani, muovendo solo tre dita ha inventato uno stile di chitarra meraviglioso. E’ uno che con due colori ha creato un mondo. Un po’ come Sergio Leone che, non avendo i soldi per fare grandi movimenti nei suoi film, si è inventato il duello. Sono cose che andrebbero insegnate a scuola! Nella prima strofa elenco le sue influenze: la poesia di Stevens, i Fugazi… mi capita spesso di pensare a lui, nei momenti di passaggio. E’ un personaggio di confine, inquietante, ambiguo. E’ una sorta di omaggio ma può anche essere letto come una preghiera. Mi piaceva anche l’idea di omaggiare una persona che appartiene alla contemporaneità.
Mi ha incuriosito anche “Il nemico avanza”. Alcune immagini sono davvero spietate…
Eh, lì cito gente cattivissima! Può essere letta come un prosieguo di “Seychelles ‘81”, che raccontava di un colpo di stato in quelle isole, in quella che era ormai l’Africa postcoloniale. Poi ci ho anche messo dentro “L’odore del sangue”, un libro di Goffredo Parise. Il titolo della canzone poi è la citazione di una frase di Mao. C’è ovviamente dentro anche il filone della guerra, mi è venuta in mente anche nel vedere le immagini della villetta di Osama, quella dove è stato ucciso. Sono immagini di inquietudine domestica, un lato normale e uno inquietante, che è poi anche quello che trovi nella copertina del disco. Mi piaceva mettere insieme due mondi, fantascienza ed esistenzialismo. L’ho fatto ne “In un mondo dopo il mondo”, nel disco precedente, e l’ho fatto ora con questa canzone.
Ma quella frase: “Spietato a vent’anni il corpo esibito”?
Non c’è un senso di spietatezza in un fisico giovane? E’ qualcosa di più della sfrontatezza. Ho visto “Strada a doppia corsia”, un road movie degli anni ’70. C’è la giovinezza all’ennesima potenza: due ragazzi magri, bellissimi, che viaggiano per l’America. E’ una cosa che dura un attimo e poi sparisce, la giovinezza eppure in quel momento li vorresti uccidere per questo senso di invidia e di gelosia. C’è un racconto di Carver che tratta lo stesso tema: ci sono due ragazzi che giocano a Bingo e due anziani dietro di loro e loro li odiano solo ed esclusivamente per la loro giovinezza.
Ne “L’odore del sangue” c’è più o meno la stessa idea: il protagonista ha sempre tradito la moglie e lui l’ha sempre accettato. Però a un certo punto lei lo tradisce con un ragazzo e lui va fuori di testa. E’ roso dall’invidia, c’è questa idea della gelosia che è descritta in maniera davvero efficace. Nelle ultime pagine, il protagonista distingue l’umanità in due grossi gruppi: chi ha l’odore del sangue e chi ne è privo. Parise faceva l’inviato, la prima volta lo ha sentito in Vietnam, questo odore, e dice che è una cosa eccitante, c’è la vita dentro. Ma in questo libro dice che alcuni ne sono privi. In questo ragazzo lui sente quell’odore del sangue di cui credeva che la moglie fosse priva…
Ci manca “Compound”…
Quella parla della morte di Bin Laden, mescolata però a ricordi di vita personale: gli uccelli sul tetto sono un’immagine privata di quando ero in Grecia con la famiglia e li sentivo zampettare sul tetto del posto dove stavamo. Poi da qui mi sono immaginato gli elicotteri che arrivavano dal cielo…
In effetti tu hai un modo personale di scrivere però nello stesso tempo usi tantissime citazioni di altri autori. Potrebbe sembrare una sorta di plagio o di rifugio per chi è a corto di idee ma non è affatto così, non trovi? Il punto è come le si usa, le citazioni…
Anche Chestnutt fa così, spesso parte da una frase che non è sua. Mi piace molto questa tecnica, anche se qualcuno ogni tanto se la prende a male: in “Fausto”, avevo ripreso “Urlo” di Ginsberg e qualcuno su internet ha detto: “L’ho beccato! Quella frase l’ha copiata!” (ride NDA). Comunque io a certe frasi non rinuncerei mai, è come un omaggio agli autori che amo ma anche una tecnica che funziona, nella scrittura di un testo.
Lo si vede anche nel titolo: l’idea dei barbari non può certo dirsi originale però è davvero efficace e poi, come titolo del disco, suona benissimo. Senti, ma sei davvero sicuro di non sapere chi siano, questi barbari?
Posso dirti questo: negli anni settanta, in una città di provincia in costruzione come poteva essere San Benedetto, c’era uno sguardo costante verso il futuro. Pian piano questo sguardo si è ritirato e oggi il futuro è una zona o nera o grigia ed è tutto rivolto al passato. Mi dà l’idea che in questo spazio nero si possano addensare i barbari, e che rappresentino dunque una sorta di mancanza di fiducia. Ad un certo punto questo mi dava fastidio. Anche nei dischi, quel continuo pubblicare ristampe, come se non ci fosse più nulla di interessante nei dischi di oggi. E allora per un po’ ho deciso che avrei comprato solo dischi nuovi. Però poi mi sono accorto che anche quello era un atteggiamento sbagliato, che non si sarebbe riusciti ad entrare in questa epoca senza considerare anche questo suo lato di revival. La nostra epoca ha lo sguardo rivolto al passato, questa è una cosa che dobbiamo considerare e accettare…
In un certo senso però era sempre così: hai presente “Midnight in Paris” di Woody Allen? Quello dove il protagonista viaggia nel tempo e scopre che in ogni epoca si idealizza il periodo precedente? Forse la differenza è che un tempo si guardava al passato, ma tenendo anche ben fisso lo sguardo sul futuro…
Può darsi. Di sicuro c’è che prima l’idea era: “Chissà cosa ci sarà da vedere!” e ora: “Non hai idea di che cosa ci siamo persi!”
Ma una speranza la vedi? O i barbari arriveranno per forza?
Io di mio sono fiducioso, sono positivamente curioso di vedere quello che succederà. Ma sono ottimista anche per quanto riguarda l’essere umano. Poi è anche difficile giudicare, a volte se pensi a tutto l’orrore che c’è, a tutto il male che è stato commesso… Però no dai, stiamo a vedere e cerchiamo di goderci quello che ci sarà dopo!
Riguardo a questo: dove potrete arrivare, secondo te, con questo disco? Avete sempre detto che siete un gruppo di nicchia eppure credo che “Aspettando i barbari” abbia in qualche modo le carte in regola per allargare la vostra base di fan.
Guarda, sicuramente è un disco che riceverà una buona accoglienza. Però non credo che succederà di più. Non credo che dopo vent’anni, saremo presi in considerazione da certi canali che non ci hanno mai guardati prima. Comunque, se accadesse sarei contento, ovvio! E’ innegabile che negli ultimi anni ci sia stata una crescita: la reunion con “Cattive abitudini” ci ha portato addosso molte più attenzioni, ora siamo più grossi di com’eravamo prima dello scioglimento, abbiamo una posizione di maggior rilievo nella scena.
Poi è strano: c’è effettivamente una generazione che è stata influenzata dalla musica alternativa italiana. Ogni tanto mi imbatto in qualche libro che ha dentro una citazione di Manuel Agnelli, per esempio. D’altro canto però, non c’è mai stata tutta questa contaminazione. Un intellettuale di oggi non sa nulla della scena di oggi, è sempre una cosa di nicchia.
L’altro giorno, però, sono rimasto basito perché Civati del PD citava una nostra canzone, “Tarzan”. Mi ha stupito perché è più giovane di me e in qualche modo credo che le nostre canzoni le abbia ascoltate, le conosca. Però, in generale, siamo sempre due mondi separati.
In Italia è sempre stato così: in Francia avevano Leo Ferré, ci sono stati certi personaggi che hanno influenzato la cultura ufficiale. A noi, questa è la mia impressione, non è stato mai concesso questo.
Ma forse abbiamo perso un po’ il treno. A inizio anni ’90 sembrava che qualcosa davvero si potesse fare, quando i CSI arrivarono al primo posto in classifica. Però poi pian piano è finito tutto, quel rock non è mai entrato nel patrimonio culturale del nostro paese… non è che probabilmente dipende semplicemente dal fatto che questa musica non può piacere alla maggioranza della gente?
Sì, è probabile che sia così. Anche noi in quel periodo eravamo passati alla WEA. Le etichette investivano molto sui gruppi come il nostro ma poi è finito in nulla. Sembrava davvero che quei gruppi sarebbero andati a prendersi il posto di Venditti. E invece Venditti è rimasto lì. Le influenze americane, le chitarre fatte in un certo modo… quelle cose non erano per il pubblico italiano. Se tu guardi, quelli delle nuove generazioni che hanno fatto successo hanno un suono che richiama più alla tradizione italiana, ai cantautori, e quindi forse più adatto al pubblico italiano. Voglio dire, forse a mia madre un pezzo di Vinicio Capossela potrebbe piacere…
E’ tutta colpa del melodramma, dunque?
Forse. Ma noi siamo di nicchia, c’è poco da fare. Quando ti capita di sentire un pezzo dei Massimo Volume assieme a della gente che non è dell’ambiente, che non capisce il nostro linguaggio, ti dice sempre: “Ma cos’è sta roba?”. D’altronde è musica particolare, che ha una sua spigolosità… e quello, sai, un po’ mi dispiace. Poi me ne frego, per carità, però la scena rock alternativa è abbandonata a sé stessa. C’è gente che ha una grande passione, ci sono locali, ci sono le etichette, tanta gente che si sbatte, che organizza, però tutto con pochi risultati. Uno come Cesare Basile fa trenta persone a concerto. Perché? La pagina musicale de La Repubblica è fossilizzata alle ristampe dei dischi storici! Ma una bella pagina sulla poetica di Cesare Basile, perché non la fanno? Non ne varrebbe la pena? E Benvegnù? Bravissimo, un genio, però non se lo guarda nessuno! Questo è grave, perché così si va a perdere veramente della roba che vale…
Poi c’è da considerare che non tutti gli artisti riescono a rimanere su livelli qualitativi alti per molto tempo. Voglio dire, tante band storiche della scena hanno già iniziato la fase discendente e non è detto che durino a lungo…
Mi è capitato di vedere “No direction home”, il documentario di Scorsese su Bob Dylan e la cosa inquietante è che di tutte le persone intervistate, non ce n’è una che dica: “Bob è un mio amico”. Pazzesco! Lui del resto ha fatto carte false per avere successo ma poi una volta che ce l’ha avuto ha iniziato a sparare a zero su tutti, sui giornalisti… però è anche interessante che negli anni ha accettato un certo ridimensionamento, ha iniziato a girare sempre, ha accettato questo suo ruolo di cantante in declino e va avanti così, non si ferma. In questa intervista poi è spietato con sé stesso: dice che negli anni ’60 era toccato dalla grazia ma che non tornerà più a scrivere a quel livello. Dice che è ancora in grado di scrivere buone canzoni ma che non tornerà mai più a fare capolavori. Ci vuole un bel coraggio! Lo ammiro per questo, non so se io riuscirei ad avere questa lucidità parlando della mia attività artistica!
C’è però in effetti una parabola artistica, vale per tutti… voi adesso, per me, siete in crescita…
Difficile dire quanta consapevolezza tu puoi avere su questo. Il grosso problema è che ce la raccontiamo tutti molto, ci giustifichiamo sempre tantissimo. E’ difficile essere obiettivi nei riguardi di noi stessi. Proprio per questo mi ha colpito quell’affermazione di Dylan. Io mi metto in ginocchio quando vedo questa spietatezza nei confronti di sé stessi, davvero, è una cosa che apprezzo. Il piagnisteo mi ha sinceramente stufato, già sono io uno che si lamenta molto!
Davvero? Eppure non sembra proprio, a conoscerti…
Eh, ma è perché ho un paio di punchball sempre pronti, di cui uno è mia moglie (ride NDA)…
Davvero, qui in Italia ci si lamenta sempre molto eppure, nonostante i problemi che ci sono, siamo sempre un paese che sta bene. Se pensi a come si sta in Africa, in Russia, in Cina, che pure oltre a tutti i problemi hanno pure una dittatura… voglio dire, ci sarà anche la crisi ma siamo sempre nella zona fortunata del mondo… poi certi lavori qui non li vogliamo proprio fare: prendi il portiere di notte. E’ un lavoro più che dignitoso eppure, io che giro spesso negli alberghi, ormai quel lavoro è coperto solo dagli stranieri! Siamo diventati molto schizzinosi, mi pare. C’è l’idea che certi lavori sono da sfigati eppure hanno una loro dignità…
Sei comunque un personaggio di riferimento all’interno di una certa scena. Ti ha cambiato in qualche modo, questa cosa o no?
Non saprei… qui a Bologna non conosco tante persone, quelle che conosco le conosco da una vita e per loro non sono certo “il cantante dei Massimo Volume”, sono io e basta! Quando vado in giro senza dubbio mi fa piacere parlare con la gente, almeno fino a quando non diventa faticoso. La gente, anche comprensibilmente, non si rende conto della tua stanchezza. L’ho sentito dire da Claudio Baglioni, una volta: torni a casa alle quattro di mattina dopo una giornata di lavoro, fai per aprire la porta di casa e senti uno che ti chiama: “Claudio, aspettavo questo momento da vent’anni!” E cosa fai, non ci passi cinque minuti? Io penso comunque che alla gente che mi ascolta e che mi viene a sentire devo proprio tanto, per cui non mi verrebbe mai in mente di essere sgarbato, neppure quando sono davvero stanco e vorrei starmene per i fatti miei. Però mi fa piacere, non fraintendermi! Anche solo per il fatto che la gente mi sta a sentire, anche quando dico una cazzata (ride NDA)! Quando sono in un posto dove mi conosce nessuno, tipo in vacanza, può magari capitare che qualcuno mi tratti male, e tu ci rimani. Almeno, quando mi riconoscono, stanno a sentire quello che dico (ride NDA)!
Siamo andati avanti ancora per un po’, tra ultimi film visti, dischi comprati e qualche anteprima del nuovo spettacolo live che ho cercato di scucire (con scarsi risultati, devo dire). Quel che è certo, è che “Aspettando i barbari” è un disco da sentire. Dal 31 ottobre, Emidio Clementi e compagni saranno dal vivo. Si parte da Ravenna e poi via, per un lungo viaggio attraverso la penisola. Noi ci saremo il 5 dicembre a Milano. Sempre che nel frattempo non arrivino davvero i barbari…