“Ci piace ballare ma il problema è che oggigiorno è difficile trovare un posto dove suonino musica che ti faccia davvero venire voglia di ballare. La musica dance a volte è così noiosa! Il problema è che o trovi musica ballabile che però è stupida, oppure trovi musica coraggiosa e profonda ma non ci puoi ballare sopra. È che io vorrei avere entrambe le dimensioni!”. 



Si potrebbe tranquillamente partire da qui, da questo stralcio di intervista rilasciata pochi giorni fa da Régine Chassagne, voce, percussioni e mille altri strumenti, anima e cuore degli Arcade Fire assieme a suo marito Win Butler (voce e chitarra). 

“Reflektor”, quarto lavoro in studio della band di Montreal, era probabilmente il disco più atteso dell’anno. Dopo aver fatto incetta di premi e riconoscimenti vari con “The Suburbs”, (che è stato anche il primo disco di un’etichetta indipendente a trionfare ai Grammy Awards), le aspettative per un ritorno in studio degli Arcade Fire erano comprensibilmente altissime. E da parte sua, la band non si è fatta attendere. Dapprima è arrivato un battage pubblicitario intrigante ed ossessivo, quasi al limite dello stalking: misteriosi messaggi sul web, loghi del monicker luminosi o in gesso (nello stile tipico dell’arte murale haitiana) che comparivano nei luoghi più disparati di varie città americane, criptici messaggi della band dal suo account ufficiale Twitter. 



Poi, nei primi giorni di settembre, l’uscita improvvisa del nuovo singolo e title track, rigorosamente in formato sette pollici, venduto in tutto il mondo ma solo in alcuni selezionatissimi negozi, con tanto di piantina da scoprire in rete. Da qui il brano finisce online e si scatena la bagarre: lo stile è il loro ma rivestito di abbondanti dosi di loop e campionamenti, le chitarre in secondo piano rispetto al prevalente tessuto elettronico. E poi la durata insolita (oltre sette minuti) e quella voce che spunta fuori verso la fine e che sembra proprio quella di un certo David Bowie. Poche ore dopo, la conferma ufficiale: lo special guest è il Duca Bianco in persona e la produzione del brano, così come quella di tutto il disco, è affidata a James Murphy, ex mente degli LCD Soundsystem. 



Tempo qualche settimana, ed ecco arrivare un filmato di venti minuti, che riprende la band che suona tre pezzi all’interno di una discoteca, agghindata e mascherata come la band elettro dance “The Reflektors”, la stessa identità segreta dietro cui si sono esibiti in alcuni show case nei giorni precedenti. Il tutto inframmezzato da sketch assurdi e finti spot pubblicitari in stile sit com anni ’80 e persino un cameo delirante di Bono e Ben Stiller. Ma soprattutto, la musica proposta è scintillante di lustrini e decisamente ballabile, apparentemente lontana dal classico stile Arcade Fire. In molti hanno evocato paragoni con la svolta “berlinese” degli U2 negli anni 90: provenienti da due dischi profondi e “seriosi” come “The Unforgettable Fire” e “The Joshua Tree”, che li avevano consacrati una delle più interessanti rock band della nuova generazione, il quartetto irlandese aveva giocato con la propria fama, facendo a pezzi la propria musica e ricostruendola in una veste edonista e dissacrante, ironizzando ferocemente sullo strapotere dei media televisivi e della società dell’immagine.

I canadesi non ci vanno molto lontano: il tema del riflesso come apparenza illusoria delle cose, come metodo ingannevole per conoscere la realtà, unito alle maschere di cartapesta del video e un Win Butler che si domanda sconsolato “siamo sempre connessi, ma siamo ancora amici?”. Sembra che ci siano tutti gli ingredienti giusto per fare a pezzi la civiltà dei nativi digitali, vent’anni dopo che gli U2 hanno fatto a pezzi il Grande Fratello della televisione. 

In mezzo, il dubbio se occorra davvero per forza travestirsi, giocare a cambiare identità, per poter tornare ad essere sè stessi. Se lo erano chiesti i Beatles al tempo di “Sgt Pepper”, quando si erano agghindati dietro a costumi variopinti e a un monicker improbabile. E prima che gli U2 scoprissero Berlino ci erano caduti anche i Pink Floyd, avventuratisi in “The Wall” per guarire la nevrosi spersonalizzante degli stadi di cui era caduto vittima Roger Waters. 

Gli Arcade Fire, a ben guardare, hanno vissuto tutto in modo più leggero. Reduci dall’epopea malinconica di “The Suburbs”, in cui avevano raccontato in maniera nostalgica ma lucidamente consapevole il tramonto dei sogni dell’infanzia di fronte all’avanzare delle periferie delle grandi città, forti di un suono che, a detta di loro stessi, stava a metà tra Neil Young e Depeche Mode, ritornano tre anni dopo in compagnia di James Murphy, uno che ha fatto vedere che la fusione tra il rock e l’elettronica aveva ancora un bel po’ di cose da dire. Uno che (basta sentire un brano come “Losing My Edge” dei suoi LCD Soundsystem,) aveva perfettamente capito lo spirito dei tempi odierni, un inseguire il passato tipico di chi si è perso inevitabilmente il presente. Lui e gli Arcade Fire sono amici di vecchia data, ma il loro sodalizio ha fatto ben di più che rievocare la vecchia dance degli anni ’80. Win Butler e Régine Chassagne sono stati parecchio ad Haiti nell’ultimo periodo: lei è nata lì, coi suoi parenti scappati in Canada per fuggire alla feroce dittatura di “Papa Doc” Duvalier. Dopo il terremoto che ha devastato il paese hanno girato parecchio lì e hanno organizzato numerose iniziative per raccogliere fondi a favore della popolazione. E in effetti i ritmi caraibici, a partire dall’iniziale title track, sono una costante di tutto l’album, grazie ad un lavoro percussivo sotterraneo ma potentissimo. Probabilmente la forza di “Reflektor” sta tutta qui, nel suo essere un disco ballabile dall’inizio alla fine, un disco “sul quale Régine potesse danzare al ritmo delle varie canzoni”, come ha detto Win Butler scherzando ma non troppo, precisando poi che nella band sono in realtà tutti ottimi ballerini (basta vederli sul palco per accorgersene). 

Che fosse anche questa una dimensione che stava loro a cuore lo si è capito quando, pochi giorni prima dell’uscita, l’album è apparso interamente montato (con tanto di testi in sovrimpressione) sopra “Orfeu negro” , un film musicale di Marcel Camus, uscito nel 1959. La pellicola è una sorta di adattamento moderno della favola di Orfeo ed Euridice, calata a Rio de Janeiro e accompagnata dai ritmi samba di canzoni che hanno poi fatto epoca. Si è guadagnato la Palma d’oro a Cannes e un Oscar come miglior film straniero. E si dà il caso che sia anche l’opera preferita di Win Butler. Che così avrebbe colto la palla al balzo per farlo vedere al mondo intero col pretesto del nuovo disco. 

Questo singolare montaggio (che è stato ritirato nel momento stesso dell’uscita di “Reflektor”) è un’esperienza unica per come immagini e musica si sposano in una fusione perfetta (impressionante vedere come i vari attori ballino al tempo delle nuove canzoni esattamente come facevano su quelle originali): difficile pensare che non l’abbiano usato come fonte primaria di ispirazione. Considerando anche che due canzoni, “Awful Sound” (splendida ballata ammantata di echi sixties) e “It’s Never Over” (dal funk beat ossessivo e irresistibile) sono proprio dedicate ai personaggi di Orfeo ed Euridice. I due sfortunati amanti ritratti in una scultura di Rodin, sono anche il soggetto dei caleidoscopici riflessi della copertina. E, guarda caso, la loro storia si presta magnificamente a riflessioni sulla realtà e la sua apparenza, sui legami e sulla loro consistenza all’interno di un mondo dove nulla regge più. Un po’ il tema di tutto il disco, sebbene per prendere confidenza con i testi occorra un tempo ben maggiore di ascolto, rispetto a quello affidato ad una recensione. 

Per il resto, la tanto conclamata e temuta “svolta dance” c’è stata fino a un certo punto: “Reflektor” è al 100% un disco degli Arcade Fire, il songwriting ha il loro marchio di fabbrica anche se l’immediatezza che da sempre li contraddistingue si è rivestita di altri suoni, guardando più dalle parti dei New Order di “Blue Monday” o del Bowie di “Let’s dance” e le influenze folk e classic rock del disco precedente sono presenti più nella natura di certe melodie piuttosto che negli arrangiamenti.

E per rispondere alla domanda su quali siano i punti di forza di questo lavoro (perché a questo in fin dei conti serve una recensione) direi che sono essenzialmente due: la straordinaria efficacia delle melodie che fa da contraltare ad un lavoro di arrangiamento sbalorditivo. 

Non che ci sia da sorprendersi, in realtà. I nostri sono sempre stati dei maestri in entrambe le dimensioni ma in questo caso si sono davvero superati. Tutte le tredici composizioni dell’album (che, tra parentesi, è un doppio anche se la durata non lo giustificherebbe; Quanto scommettiamo che anche qui la teoria del riflesso ha avuto il suo peso specifico?) restano in testa già al primo giro ma nel contempo, l’ascolto in cuffia rivela ogni volta nuove sorprese, un mare di tesori sepolti che davvero sembra non finire mai. 

Da questo punto di vista, il lavoro svolto dai Beatles su “Sgt Pepper” risulta decisamente surclassato. 

Ed è proprio qui che mi sembra il caso di riagganciarsi: perché se c’è una cosa che il quarto lavoro in studio degli Arcade Fire potrebbe riuscire a fare, consentitemi una riflessione ardita, è quella di annullare quella frattura tra critica e pubblico che proprio a partire dal 1967 iniziò a crearsi. Quell’idea per cui la musica, più è elaborata, complessa e ricca di contenuti, più è alla stregua dell’arte contemporanea: esperienza strabiliante per chi la comprende, una noia mortale per chi non abbia un’educazione specifica di ascolto. Una piaga, questa divisione, che ha creato quella guerra tra “indie” e “mainstream” combattuta in modo diverso decennio dopo decennio, ma sempre con la sua bella scorta di morti e feriti sul campo. 

“Reflektor” ha davvero le carte in regola per piacere a tutti, dai secchioni e saputelli del rock allo studente di liceo che pensa che “Viva la Vida” dei Coldplay sia una canzone fenomenale. Sufficientemente sofisticato e stratificato per il primo, sufficientemente immediato ed easy listening per il secondo. 

Musica profonda che faccia anche ballare, dicevamo all’inizio: “Quando sento il ritmo – cantano in “Here comes the night time” – il mio spirito si accende come un filo elettrico. Comincia dai piedi e poi ti sale in testa.” Appunto. 

Vediamo come andrà a finire. Nel frattempo, non credo ci sia un disco più adatto di questo, da regalare alle persone a cui vogliamo bene.