I dischi di cover hanno sempre un fascino particolare, se l’artista che li propone ha una personalità forte e se la selezione dei pezzi è sufficientemente ricercata e originale da infondere loro nuova vita, quasi si trattasse di una vera e propria raccolta di inediti. 

Da questo punto di vista, “I’ll take care of you”, il primo lavoro solista di Mark Lanegan dedicato unicamente alla reinterpretazione di brani altrui, aveva davvero entusiasmato. Era un lavoro oscuro e melanconico, che trasudava dell’anima tormentata del suo autore e che ancora oggi potrebbe essere tranquillamente inserito tra i suoi dischi migliori in assoluto. 



Questo “Imitations”, annunciato già prima dell’estate, non riesce purtroppo a ripetersi sugli stessi livelli. 

L’ex Screaming Trees, da sempre largamente prolifico (ha pubblicato da pochi mesi “Black Pudding”, in cui canta sulle canzoni dell’amico Duke Galwood, ha preso parte all’ultimo lavoro dei Queens of the Stone Ag” e il suo ultimo disco solista risale a poco meno di due anni fa) ha dichiarato esplicitamente che l’intento di “Imitations” è quello di ricreare le atmosfere dei dischi che soleva ascoltare da piccolo assieme ai suoi genitori. Erano “album di Andy Williams, Dean Martin, Frank Sinatra e Perry Como, musica ricca di arrangiamenti e uomini che cantavano brani che suonavano tristi, qualora gli interpreti lo fossero o meno.” Così ha dichiarato nelle note di presentazione del lavoro. 



E così, dopo aver omaggiato le sue personali influenze nel lavoro precedente, ha deciso di gettarsi ancora più indietro, alla scoperta di quelle radici, inconscie o meno, che hanno contribuito a formare la sua identità musicale. 

Diciamo subito che chi ama Mark Lanegan soprattutto per la sua voce calda e baritonale, non rimarrà deluso: il cantante è sempre lui, il suo modo di entrare dentro i brani è unico e anche questa volta ha fatto centro. Purtroppo però questo è un lavoro che vive di alti e bassi e che appare confezionato un po’ troppo in fretta. Alla consolle è stato chiamato Martin Feveyear, che aveva già assistito Lanegan durante “I’ll take care of you” ma i risultati sono ben diversi: gli arrangiamenti appaiono spesso raffazzonati e hanno un po’ la tendenza a muoversi in maniera schizofrenica, ora assecondando l’interpretazione vocale, ora cercando di evocare l’atmosfera romantica e un po’ sdolcinata dell’epoca in furono scritti gli originali. Da questo punto di vista, la presenza di archi e orchestrazioni varie è un po’ troppo invadente (almeno per i gusti del sottoscritto!) e non manca di dare fastidio, come accade ad esempio in “She’s gone” di Vern Gosdin, troppo caricata ed enfatica, o all’opener “Flatlands” di Chelsea Wolfe, che suona decisamente sdolcinata. Stessa sorte subisce “I’m not the loving kind” di John Cale, uscita quest’estate come singolo: nonostante la grandezza del suo autore, questa versione risulta non poco stucchevole. 



Si avverte anche una certa mancanza di omogeneità: questo probabilmente perché Lanegan ha scelto di inserire anche qualche brano più recente, cantato da colleghi e amici che hanno condiviso con lui un certo tratto di strada. Un tentativo di unire passato e presente che ha dato vita a episodi validissimi (si veda la “Deepest Shade” dei The Twilight Singers, il gruppo del suo vecchio compagno d’avventura Greg Dulli) ma poco amalgamati nel contesto. E poi non sempre, anche in questo campo, va tutto bene: la sua versione di “Brompton Oratory, uno dei brani più suggestivi di Nick Cave, è alquanto infelice. Non tanto per l’interpretazione in sé, ma perché l’arrangiamento fin troppo pomposo contrasta con la scarna semplicità dell’originale. 

Ci sono anche cose meravigliose, però: “You only live twice”, vecchio successo di Nancy Sinatra, è semplicemente commovente. E lo stesso si può dire di “Pretty Colors”, dove si confronta invece col padre Frank (non a caso le due canzoni sono state messe in scaletta una dopo l’altra). 

Pienamente riuscita risulta anche “Solitaire” di Andy Williams, forse il miglior episodio del disco, uno dei rari momenti in cui tutto funziona come dovrebbe e la prestazione vocale raggiunge livelli mai sentiti. 

Interessante “Mack the knife” (un vecchio pezzo degli anni venti, con un testo firmato dal drammaturgo Bertold Brecht) che con le sue sonorità folk avrebbe anche potuto finire sul disco precedente. Le restanti tracce, dispiace dirlo, scorrono via senza troppi sussulti (da dimenticare soprattutto “Elegie funebre” di Gerard Manset. Decisamente il francese non fa per lui!) e forse anche qualche sbadiglio. 

A conti fatti, non si tratta di un brutto disco: chi volesse avvicinarsi ad una voce straordinaria ma non fosse particolarmente attirato dalle sonorità claustrofobiche delle ultime prove in studio, potrebbe trovare in questo “Imitations” un buon punto da cui iniziare. Per tutti gli altri: se siete dei fan sfegatati, allora sarete obbligati a procurarvelo. In caso contrario, ci si potrebbe anche buttare su altre cose. Già, perché alla fine forse, il vero problema di questo disco è che non se ne capisce tanto l’utilità. Speriamo solo che le prossime date italiane (il 18 novembre a Bologna, il 19 a Mestre, entrambe in compagnia di Duke Garwood) ci riconsegnino un artista più in forma di quello visto negli spettacoli estivi di luglio…