Da alcuni sosteniamo in questa testata che, nel teatro lirico italiano, la carica innovativa è più forte nei teatri ‘di tradizione’ (che ricevono pochi contributi dal Fondo unico per lo spettacolo, Fus) e devono fare spettacoli che non piacciano solo alla critica paludata ma anche agli enti locali, alle imprese del bacino di utenza ed al pubblico pagante che nelle grandi fondazioni. Il Teatro Alighieri di Ravenna ci ha regalato spettacoli molto innovativi (sempre in co-produzione con altri) sia durante la stagione lirica che nel Festival il quale, nel 2014, diventa venticinquenne. Ricordiamo Rinaldo e Giulio Cesare in Egitto di Haendel nel repertorio Barocco e The Rape of Lucretia di Britten in quello del ‘Novecento Storico’.



Quest’anno a chiusura del bicentenario verdiano, presenta la trilogia Shakespeare-Verdi (Macbeth, Otello, Falstaff) che si può vedere (sino al 16 novembre) in tre serate successive nell’antica capitale bizantina, andrà probabilmente integrale a Piacenza ma alcune delle tre opere sono già ‘cartellonizzate ’ a Ferrara, Savona ed altri teatri. La ‘trilogia’ dovrebbe girare molto l’anno prossimo (anche al di fuori dei confini nazionali) in occasione dei 450 anni dalla nascita di Shakespeare.



In altra sede ho esaminato l’importanza, anche politica, del rapporto tra Shakespeare e Verdi. Nel ‘programma di sala’ viene ricordato acutamente uno scritto di uno dei maggiori anglicisti italiani del Novecento, Gabriele Baldini, secondo cui attardarsi nello studiare se Shakespeare venne adattato a Verdi o viceversa è uno ‘speudoproblema’ poiché ‘Shakespeare, come è chiarissimo, Verdi lo aveva preveduto al millimetro ’..’tanto che poi avvenne’.

Soffermiamoci sugli aspetti musicali della trilogia che parte da Ravenna e spero si vedrà, oltre che in altre città italiane, anche all’estero. La sua caratteristica di fondo è che è frutto un lavoro di squadra: l’orchestra Cherubini concertata da Nicola Paszkowski, Cristina Mazzavillani Muti (regia ed ideazione scenica), Vincent Longuemare (luci), Ezio Antonelli (scene) , Alessandro Lai (costumi), Davide Broccoli e Sara Callumi (visual design), Catherine Pantigny (coreografia) , trenta giovani cantanti provenienti da tutto il mondo con un’età mediana sotto i trent’anni, ed il coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Cosati. Gli elementi scenici sono i medesimi per le tre opere: piattaforme, gradini e quinte. Grazie alle proiezioni video ed alle luci, si va dal clima ossessivo di Macbeth, al contrasto tra luce mediterranea e oscurità di Otello, all’evocazione dei luoghi verdiani (il giardino della villa Sant’Agata, la casa natale a Busseto, la platea ed i palchi del Teatro Regio ) in Falstaff. L’operazione, al pari di quella che conduce da tre anni La Fenice di Venezia, contraddice chi sostiene che i teatri italiani non possono mettere in scena che un’opera alla volta, e per poche repliche, per la difficoltà dei cambi-scena



Nicola Paszkowski tiene ragionevolmente ben l’equilibrio tra buca e palcoscenico (ma accede in sonorità nel secondo e terzo atto di Otello ) ed i ragazzi dell’Orchestra Cherubini si fanno onore con tre partiture difficilissime. Altra smentita a chi sostiene che le orchestre ed i maestri concertatori italiani non possono esibirsi in due o tre opere nell’arco di due –tre serate successive perché ne andrebbe di mezzo la qualità. Infine , il coro del Municipale di Piacenza lo gioca da protagonista in Macbeth ed Otello, nonché del quadro finale di Falstaff.

Per quanto riguarda le voci , occorre fare una premessa generale: oltre che giovani (un pregio per la recitazione) i cantanti vengono da tutti gli angoli del mondo: la dizione di alcuni lascia a desiderare (ma i sovratitoli, sia in italiano sia in inglese – il pubblico è internazionale- agevolano la comprensione). InMacbeth, ispirato alla grafica surrealista di Alberto Martini, spicca il soprano coreano Vittoria Ji Won Yeo nell’impervio ruolo della Lady. Nel ruolo del titolo, l’azero Evez Abdulla è cresciuto nel corso della serata (prendendo gradualmente sicurezza) mentre il russo Andrey Zemskov è stato un efficace Banco ed il romano Giordano Lucà (classe 1988) ha svettato nell’aria di Macduff.

In Otello, l’argentino Matias Tosi (già noto tra l’altro per una sua interpretazione fuori classe a Palermo ne De Koening Kanduales di Zemliski a Palermo nel 2012) è uno Jago di grande spessore sia nell’azione scenica sia nell’uso delle ‘mezzo voci’ e del fraseggio; peccato che la sonorità eccessiva dell’orchestra abbia offuscato il suo Credo nel secondo atto. Diana Mian è una Desdomona dolce e con la vocalità dolce nel difficile quarto atto. Il protagonista è l’azero Yusif Eyvazov, un Otello imponente, di presenta scenica e grande volume ma con una voce non gradevole e priva del colore e dello sfumature che dovrebbe avere uno dei più complessi ruoli verdiani.

Falstaff merita i palcoscenici delle grandi fondazioni liriche per la scintillante regia piena di idee, l’ottimo cast guidato dal russo Kiril Manolov un gruppo femminile essenzialmente italiano (Eleonora Buratto, Damiana Mizzi, Isabal De Paoli, Anna Malavasi), un giovanissimo tenore svizzero di grande livello (Matthias Stier) ed un gruppo maschile di qualità (Francesco Landolfi, Giorgio Trucco, Matteo Falcier, Fabrizio Petracchi). Un quarto d’ora di meritati applausi hanno suggellato il successo.