E’ sembrato che nei giorni scorsi le distanze geografiche tra Milano e Duluth si fossero ridotte. Avete presente uno di quei tanti gemellaggi tra le città reso visibile dai cartelli stradali? Ecco, a giudicare dalla concentrazione di artisti della contea di St. Louis in città, è stato come se si fosse instaurato un legame particolare tra la cittadina del Minnesota e il capoluogo lombardo.
A distanza di un paio di giorni dalla clamorosa tripletta di Bob Dylan al Teatro degli Arcimboldi, una celebre band di Duluth si è esibita su un palco meneghino. Si tratta dei Low, essenziali e minimalisti paladini dello slow-core.
Esattamente due anni dopo l’ultimo concerto milanese ai Magazzini Generali, i Low hanno concluso la rassegna Sound & Comfort nell’ultima delle tre date italiane. Siamo all’inizio del tour europeo, partito con la data di Cartagena in Spagna. Si sa, in questo periodo di crisi bisogna fare economia e i Low, dei coniugi Alan Sparhawk e Mimi Parker, hanno fatto economia domestica: sono ripartiti in tour dalla penisola Iberica dove la side band dei Retribution Gospel Choir ha iniziato e concluso la sua tournée di una decina di tappe.
Alan Sparhawk (voce, chitarra) e Steve Garrington (basso, tastiera) hanno pertanto cambiato casacca, abbassato i volumi, premuto il tasto sul rallentatore e si sono ricongiunti con Mimi (voce, percussioni) per indossare tutti e tre il cappello dei Low.
Il palco del Teatro Martinitt è spoglio, buio, tutto nero. Mimi al centro si presenta armata di spazzola e mallet con una batteria essenziale, Alan alla sua destra alterna due chitarre e alla sinistra Steve al basso è l’unico che introduce una nota di colore alla serata indossando dei pantaloni rosso fuoco in perfetto abbinamento con la tastiera. Il teatro è colmo in ogni ordine di posto ma il silenzio e il rispetto è assoluto, del tutto inusuale per una performance rock. Questa atmosfera, questa dimensione, molto più congeniale allo stile dei Low rispetto a discoteche o a grandi festival, rende ancora più magica e solenne l’esibizione. I primi brani presentati in scaletta sono tutti parte di The Invisible Way, decimo album della band pubblicato a marzo di quest’anno, inciso a Chicago negli studio (The Loft) dei Wilco e prodotto dallo stesso Jeff Tweedy.
Plastic Cup (cruda e diretta), On my Own (Happy birthday, Happy birthday, Happy birthday, Happy birthday…), Clarence White (I know I shouldn’t be afraid), Holy Ghost (primo pezzo cantato da Mimi), Just Make it Stop (ritmata), Waiting (corale) sono i titoli dei nuovi brani che ben si amalgamano e integrano con il repertorio classico della band e in cui il contributo della voce di Mimi risulta fondamentale come non mai.
Monkey è il primo ritorno al passato. Prelevato dall’ottimo “The Great Destroyer” (il disco più rock della band) è uno dei brani più noti, reso ancora più celebre da Robert Plant che lo ha voluto reinterpretare nel suo album del 2010 “Band of Joy”.
Dopo un’intensa Dragonfly, Words è una delle poche canzoni introdotte da Alan: “it’s an old song, older than some of you”. È infatti un ritorno alle origini, primo brano del primo album “I could live in hope” del ’94.
Especially me e Nothing but heart sono gli unici estratti dal penultimo e acclamato album C’Mon. Quest’ultima mancava da qualche tempo nella setlist e come già evidenziato in queste pagine in passato, è un vero tutto al cuore. “Non sono altro che cuore” viene cantata e ripetuta fino allo stremo. Ma sempre con nuove tonalità, nuove intonazioni, nuovo spessore. E non finisce mai di stancare e di commuovere.
Ma le sorprese non sono terminate. Sunflowers e Into the drugs sono altre due gemme che si vorrebbe ascoltare all’infinito. Quello che colpisce è la perfetta armonia vocale: ogni canzone cantata da Alan, viene sostenuta da Mimi e viceversa. Mai da soli e mai separati. L’unione è la loro forza.
Con Pissing dopo un attacco in sordina, si alza nuovamente il volume e il suono si inerpica in un crescendo impetuoso in cui la melodia incontra la distorsione. L’esecuzione è da incorniciare, in assoluto uno tra i migliori brani in repertorio.
Dopo la delirante e tenebrosa Murderer (…Lord, you may need a murderer, someone to do your dirty work…) il set si chiude con Stay, che oltre ad essere un invito a rimanere in sala per i bis, è in realtà una cover, l’unica cover…verrebbe da chiedersi, ma tra i tanti artisti da interpretare, proprio Rhianna? Scelta alquanto bizzarra, come se fosse un pezzo assegnato da un giudice di X Factor. Eppure il trio del Minnesota riesce nell’intento di valorizzarla, trasformarla, renderla propria. Chitarra e tastiera con le voci di Alan e di Mimi che si alternano nelle strofe fino ad intrecciarsi tra di loro. Diversa da tutto il resto ma il risultato è certamente apprezzabile.
Prima dei saluti finali e prima che “…God bless the darkness of the night” è il tempo della spettrale Violent Past e della ballata malinconica Last Snowstorm of the Year.
Infine si congedano dal pubblico con la loro personalissima e soave buonanotte I hear…Goodnight, un brano estratto dall’EP “In the Fishtank” pubblicato oltre dieci anni fa in collaborazione con i Dirty Three di Warren Ellis.
Una serata intensa di poco più di un’ora e trenta ma da ricordare. La proposta musicale della band nei suoi venti anni di storia si è evoluta e arricchita ma ha sempre mantenuto una caratterizzazione distintiva. Evviva la coerenza. Nella sua semplicità, il suono intimo e scarno risulta ricco di tutta l’essenzialità.
Non necessariamente i testi, piuttosto i suoni, le voci, ma anche i silenzi, rimandano ad una certa spiritualità non comune, ad una malinconia dolce e delicata foriera di speranza e di positività. I could live in hope. Ed è un bene ricordarselo.