Recitano le note del disco a cura dello scrittore e amico del gruppo Colum McCann: “a volte sembra che non sia mai esistito un tempo senza Clannad.  Per quanto appartengano al presente, hanno sempre definito il passato“. Passato e presente come inscindibile centro nevralgico di un’esperienza lunga quarant’anni. 



Il nuovo incrociarsi di vite in cui il termometro dell’inquietudine aveva toccato valori frenetici e incontrollabili.  Il girovagare inesauribile dei più irrequieti tra loro – Moya e Pòl – fino al ritorno, a quel riprendersi iniziato cinque anni fa sancito dal bellissimo CD/DVD live “Christ Church Cathedral” e conseguente tour che ha portato i nostri in Italia per più date nel febbraio scorso (se n’è parlato su queste pagine). Proprio allora dal palco bresciano che li ha ospitati Pòl Brennan aveva preannunciato un imminente ritorno in Italia nel 2014 con un nuovo album al seguito.  Qui si riapre il ricorrente interrogativo.  



Ritorno per onor di firma o urgenza reale e fisica di condividere nuove note e rinnovate visioni con il popolo della musica? La risposta è in questo lavoro ma si nutre di un solido rinvio al passato recente e più remoto come contrassegno delle fondamenta di questo lungo rientro a casa, tra le valli e in quelle esistenze che dalle aree incantate di Donegal si sono sparpagliate verso le più svariate latitudini e geografie tra crosta terrestre e cieli del nord, lanciando corpi e anime alla ricerca della nuova epifania della casa originaria.  La casa eterna, illimitata e finalmente riscattata da quel senso doloroso e interminabile di fallibilità che accompagna slanci, relazioni e amori dell’essere persona nel mondo.



Il risultato è un disco che vibra note come sempre più di rado è dato sentire nel panorama musicale odierno.  La rinnovata accoglienza reciproca dei fratelli Brennan e degli zii Duggan getta nuova luce sul cammino di queste anime dove musica e vita si compenetrano dal risveglio quotidiano fino all’atto di un sonno notturno che trascende l’ordinario riposo, pieno di una dimensione di desiderio e visione in continua evoluzione.

Passati attraverso le dolci eppur sempre eleganti voglie pop dei pieni ’80 e le sbornie new age dei profondi ’90 (“Lore“) per riprendere parte della strada maestra sul finire del decennio con i rigurgiti melodici di “Landmarks“,  i Clannad con il nuovo album “Nadur” razionalizzano tutte le tendenze avvicendatesi in quattro decenni di esperienze sul campo.  Decisivi in questo senso il rientro nei ranghi compositivi del folk conductor Pòl e il ritrovarsi definitivo di Moya con il terzo fratello Ciàran a far da indispensabile battistrada del tracciato sonoro.

In poco più di cinquanta minuti si susseguono in ideale armonia e sorprendente simbiosi le origini, le svolte e gli eterni ritorni di quel vasto e contaminato mondo musicale.  L’apertura di Vellum ci rende come nuova e imperitura l’aura epocale di Theme From Harry’s Game mentre da par suo Rhapsody ma gCrann disegna il più classico dei pop dai contorni pastorali rubato ai trascorsi eighties della band.  A completare il terzetto una Transatlantic dove a dettare il passo è un dolce e malinconico naufragare sonoro su liriche tratte dalla novella omonima di McCann.  Schizzi di memorie di New York e Londra fanno da sfondo alle vicende epiche dei primi transvolatori atlantici Alcock e Brown fino a quelle più recenti dei negoziati di pace irlandesi del 1998.   Brave Enough – lanciato anche in video come ideale singolo promozionale – è l’inconfondibile pastiche pop-folkie che coniuga intrepido tolkieniano e avventuroso da tv serial.  Un esempio da seguire quanto a gusto e classe non meno di The Fishing Blues forse il primo caso di sconfinamento consapevole in territori folk-country d’oltreoceano per un impatto semplice, quasi easy ma non meno d’effetto.

E se certe delicate istantanee strumentali o taluni remake di canti antichi appaiono attestati su una distinta ordinarietà, è in certe emanazioni folk di produzione propria che il lavoro cala i propri assi nella manica.  Così una A Quiet Town di Noel Duggan in cui l’atmosfera festosa viene resa con un linguaggio d’incomparabile delicatezza o una Setanta (a firma del suo gemello) che da dolce e soffusa esplode in una coda ricca di sentori di danza popolare con flauti, arpa e chitarre a scolpire un’apoteosi in perfetto unisono.

 

Piccoli e grandi vertici si avvicendano fino al grande sussulto.  Tre brani di grande livello a rappresentare il suggello e l’apice di un album che accoglie definitivamente la seconda venuta della famiglia musicale irlandese.   

E se Turas Dhòmhsa chon na Galldachd  è il traditional che – in forma quasi agiografica – riesuma le eroiche traversate vocali a consegne ripartite della celebre Mhòrag’s na Horo Gheallaidah, l’assalto finale è condotto da un Ciàran Brennan che con la sua Hymn (To Her Love) impartisce una lezione di gusto e stile nel ritrarre quella persistenza primaria del cuore che viene ancor meglio decantata ed esaltata dalla Moya di The Song in your Heart.

Tre minuti e mezzo in cui la cantante dirige la band nell’estremo affresco che mette a tema quel persistere.  E nelle pieghe e nel soffio ancora vivo e puro di quella voce si possono scorgere e registrare storie e geografie del desiderio umano come in un’ecografia giocata di sponda.  Un’esplosione condotta come un assalto dalle viscere della terra, l’incontro dell’altro cuore scavalcato dalla sua perdita, l’abbandonarsi alla lenta, irreversibile ed eterna figurazione di sé ad opera del più grande e insuperato degli autori.