I Quarterflash, creatura sbalzata dal ventre ultimo del decennio di tante intuizioni, crisi e rivolgimenti, prendono forma compiuta agli albori degli ’80 dalla unione di due gruppi di Portland – i Seafood Mama dei coniugi Ross, e i Pilot di Jack Charles. Ne viene fuori una band viva ed affiatata con ottimi musicisti che tentano di porsi come voce originale e non omologata in quegli ’80 nati da spinte e controspinte a colpi di rivoluzioni punk e desiderio di riappropriarsi delle forme rock tradizionali nella maniera più stringata e riassuntiva che il decennio del riflusso impone.  



Ma il talento c’è e non mente.  Il primo celebre album eponimo targato 1981, il seguito di “Take Another Picture” (1983), top 40 buono seppur non altrettanto dirompente, e i più seriali “Back into Blue” e “Girl in the Wind” (1991), livello discreto pur con molta integrità lasciata sul campo a favore dell’uniformità sonora degli ottanta a ridosso della decade successiva.



E’ tutto in quell’esordio “Quarterflash”, è tra quei solchi che si rinviene una possibile chiave di lettura, il trait d’union lirico-tematico tra il gruppo di ieri e quello felicemente resuscitato nel corso dell’ultimo lustro. Power-pop, FM rock o pop-rock radiofonico che dir si voglia, impreziosito da un playing solido e raffinato, un suono e una produzione che straripa di classe e una impostazione inusuale dei ruoli. Da una parte la sezione capitanata dal chitarrista Jack Charles, dall’altra quella trainante nelle mani dell’altro chitarrista Marv Ross e della moglie Rindy Ross, voce solista e sax.  



Album che raggiunge un notevole numero 8 negli US e soprattutto un singolo (top 3) entrato negli annali dell’ascolto radiofonico di prima scelta a livello planetario.  Harden my Heart, memorabile melodia portata da un sax che esplode di un lirismo rauco e da quella voce che gioca in maniera sorniona tra romanticismo da highway notturna e lacerazione trasfigurata in moine che flirtano con l’avventuroso. Tutto nelle mani di Rindy Ross, sorta di angioletto infiltrato dello star system. Tutto o quasi perché scrittura ed efficaci break solistici di chitarra sono nelle mani del marito Marv.   

Un’atmosfera che permea e contrassegna gran parte del disco, passando dalla quasi gemella – seducente e tenebrosa – Right Kind of Love alla più aggressiva Find Another Fool.   E che si spezza, o meglio si spalanca ed allarga in armonie repentine ed impreviste con l’epilogo di William’s Avenue.  In una pop-rock song epica di otto minuti si sprigiona e si ridisegna tutto lo scenario della grande musica dei ’70 metabolizzata dalle nuove tendenze. Sentori funky, voce che si fa più narrativa e serpentina, wall of sound da big band, virate jazzy e scorci di grande metropoli secondo la lettura di certa canzone romantica cara al Joel delle infatuazioni newyorchesi.

Non mancheranno altri velati riferimenti neppure nel sequel del 1983 (dove la title track Take Another Picture non è meno joeliana nelle sue incursioni strumentali), ma la ricchezza del patrimonio esibito da quello sterminato epilogo non troverà nuovi agganci e decisi riferimenti se non nel recente ritorno all’incisione dei nostri.

Dapprima in maniera più guardinga e quasi sospirata con la rentrée di “Goodbye Uncle Buzz” del 2008.  Un disco ricolmo di canzoni strepitose che pennella atmosfere dove la forma pop è sovrastata ora da umori slow-cool ora da splendide rivisitazioni del canzoniere gospel/blues. Disco passato sotto silenzio e che sarebbe degno da solo di una recensione a parte.

La fine dello scorso mese di settembre vede la pubblicazione di “Love is a Road”, lavoro di altissimo profilo che con nove canzoni nel giro di poco più di quaranta minuti di durata, dona linfa fresca e lucente a quella musica di elezione squisitamente americana da sempre in cerca di nuove concordanze e filiazioni rintracciate dalla connessione intima di rock e folk.

Coadiuavati da un gruppo di eccellenti musicisti del giro di Portland che da tempo (molto prima del ritorno su disco) accompagna le sorti live dei coniugi Ross, forti del chitarrista solista Doug Fraser e dal tastierista/sassofonista Mel Kubik, l’album si apre con I Can’t Help Myself un energico rock che unisce tratto pragmatico a una girandola di strumenti a fiato che riporta alle scorribande r’n’b del primo James Brown. 

Ma è il terzetto di brani a seguire che ci mette di fronte alla rimessa a nuovo del significato della grande musica.  Un indizio e forse qualcosa di più su quello che va sotto la denominazione di talento dei grandi ovvero l’abc del rendere limpide e trasparenti le cose più straordinarie.  

All Diamonds eroga un concentrato armonico a base di  rock, ritmi tosti e preziosismi d’ensemble gospel/soul.  I Want You Back mette in fila folk stralunato, riff grintosi e finale denso di iniezioni psichedeliche tra chitarre brulicanti di frequenze, rullate nevrasteniche di batteria e quella voce di Rindy, oggi più grave, graffiante, forse incattivita dagli urti esistenziali forse più semplicemente resa più matura e varia dalle multiformi vicende della ordinaria umanità.

Già forse.  Perché a seguire arriva potente ed evocativa una title track che porta reminiscenze di quel canto suadente e vitaminico della Ross di tre decenni addietro.  Tra note piene, fioriture armoniche di sponda e dolci scorrimenti di violino la nostra canta con parole semplici, precise e forti del duro percorso dell’amore in senso anti-romantico e anti-climatico, in bilico tra l’oro e la polvere, il gelo e la lussuria, la disillusione e il continuo vegliare.

Potrebbe bastare ma il disco offre variazioni continue, riflessioni e ripartenze energiche come uno spaccato autentico di vita racchiuso nella durata di un vecchio album, una commedia drammatica che pone al centro la vita intera rifuggendo facili soluzioni o la grande tentazione dell’abisso.  

More – sul canto raschiato e diseguale di Marv Ross – disegna ancora traiettorie sporche e nervose tra rock e corali soul, mentre in Say What You Want About Soul, Rindy ricrea con l’aiuto della band l’irresistibile incedere battente del soul più sanguigno made in Motown.

E tra la soffice ballad Little Miracles che rievoca ricordi musicali d’infanzia e il liberatorio finale rock-blues di Rock On Little Brother,  trova spazio un altro episodio di dirompente forza narrativa come Adios (The Funeral Song).  Un pianoforte elettrico liquido e crepuscolare, il canto del bassista Denny Bixby, le controarmonie vocali di Rindy per una pop ballad delicata, intensa e disincantata, forte di una indignazione venata di lucida malinconia.    

L’estremo saluto ad una sorta di genio maledetto e ingestibile diventa il ritratto di tutte le nostre varie e incerte umanità di fronte all’imponderabile.  Sincerità ed ipocrisia, forza e fragilità fanno il paio con la totale mancanza di difese di chi in vita non era particolarmente amato, vezzeggiato o popolare.   

Love is  a Road” è  il colpo a sensazione assestato in extremis, il gusto rinnovato di un’imprevedibilità che assomiglia all’acqua pura scoperta nel fondo remoto di rocce dure e spigolose prive di apparenti indizi di fecondità.  Tutto questo accade in un mondo musicale in pieno stato d’assedio, in un 2013 probabilmente più avaro di quella serie di dischi che grandi, grandissimi e ottimi outsiders non avevano fatto mancare nell’annata precedente.

A tanto provvede una band su cui nessuno avrebbe mai scommesso né tanto meno giurato circa la sua attuale esistenza né riconosciuto uno straccio di rilevanza alla luce del periodo controverso che li ha generati.  Se tutto questo può creare le premesse di un possibile disco dell’anno, il lavoro in questione lo rappresenta in pieno e tanto basta a renderci cari e preziosi quegli adorabili temerari dei coniugi Ross.