Torna in Italia Matthew Houck, in arte Phosphorescent, giovane cantautore di Atlanta ma ormai da tempo residente a New York. Il suo ultimo lavoro in studio, “Muchacho”, il sesto della sua già decennale carriera, era uscito ad aprile ma il nostro paese non era stato contemplato nella lista delle visite. Ci ha per fortuna pensato la Barley Arts, che a questo giro lo ha offerto al pubblico milanese nella suggestiva e prestigiosa cornice della Salumeria della Musica, locale quanto mai adatto alla proposta musicale dell’eccentrico americano e dei suoi compagni di avventura.
Aprono i Caveman, quintetto di New York recentemente usciti sul mercato col secondo album, auto titolato. Per cinquanta minuti circa deliziano il pubblico con il loro indie rock velato di folk, condotti sapientemente per mano dal cantante e chitarrista Matthew Iwanusa. Una voce delicata ed espressiva allo stesso tempo, che non disdegna il falsetto ma lo fa in maniera non fastidiosa, e una presenza scenica più che adeguata. Il tutto col supporto di una band validissima sul piano strumentale, tanto che i soli e le improvvisazioni di cui sono infarciti i brani costituiscono la parte migliore del loro set. Il pubblico (per lo meno quelli non intenti a mangiare e a farsi i fatti loro) dimostra di gradire. Indubbiamente interessanti, da approfondire mediante l’ascolto dei dischi.
Rapido cambio palco (con la band di Houck che, in perfetto stile low profile si monta gli strumenti da sola) ed ecco il turno di Phosphorescent.
“Muchacho” non è stato un disco di facile realizzazione: il musicista usciva da un periodo piuttosto difficile, tra lo stress del tour di “Here’s to takin’ it easy” e la fine di una relazione amorosa che lo ha lasciato arido e svuotato. Ha raccontato lui stesso che una notte, non riuscendo a dormire, ha prenotato un aereo per lo Yucatàn, Messico e lì si è recato per una settimana, affittando un bungalow sulla spiaggia. In perfetta solitudine, lontano dallo stress di New York, ha cercato di ricaricare le batterie, scrivere qualche nuova canzone e, attraverso questo, trovare una nuova ragione per continuare a vivere.
Ne è uscito un disco cupo, sofferto, più ricco di sperimentazione e per certi versi lontano dal songwriting lineare e rassicurante di “Here’s to takin’ it easy”, per chi scrive il suo lavoro più completo e maturo. Ma, seppure forse leggermente inferiore al suo predecessore, “Muchacho” è un lavoro affascinante, ricco di sfumature e fortemente autobiografico; un disco in cui, accanto ai toni più cupi ed intimisti, si alternano aperture rockeggianti che lasciano intravedere una possibilità di ripresa e redenzione.
Un disco importante, indubbiamente, che non a caso costituisce l’ossatura principale del nuovo spettacolo. Apertura affidata a “New Anhedonia”, forse il brano che maggiormente riassume lo stato d’animo in cui il suo autore si trovava all’inizio del processo di scrittura (l’anedonia è di fatto l’incapacità a provare piacere, in qualunque circostanza).
A seguire, la lunga maratona di “The Quotidian Beast”, uno dei pezzi più importanti del disco e “Terror In The Canyon”, che da suadente ballata viene trasformata in pura deflagrazione psichedelica. Sembra essere proprio questo il punto di forza dello show di Phosphorescent: la band di cinque elementi che lo accompagna è rodatisssima e l’esecuzione live dona ad ogni pezzo sfumature nuove, facendo emergere particolari sotterranei e addirittura stravolgendo completamente l’intenzione di alcuni di essi. È il caso della romantica “Nothing Was Stolen” (uno dei più attesi, a giudicare dal boato che lo ha accompagnato), accelerata nel tempo e divenuta un rock trascinante, che ha fatto battere mani e muovere piedi a iosa.
Bisogna dirlo apertamente: se su disco Matthew Houck risulta essere alla lunga un po’ pesante (accadeva soprattutto nei primi lavori), dal vivo è tutt’altra cosa e lo spettacolo scorre via che è un piacere. Merito anche della simpatia e della personalità del singer, che sul palco mostra di divertirsi molto e che sembra essersi definitivamente lasciato alle spalle il periodo buio. Ride, scherza e interagisce col pubblico a più riprese, ironizzando su una freddura orrenda di cui nessuno ride e dialogando con uno spettatore delle prime file, prima invitandolo sul palco a suonare i bonghi (non troppo seriamente, visto che non è stata improvvisata nessuna jam session) e successivamente dedicandogli una splendida versione di “Storms never last” di Jessi Colter, eseguita da solo alla chitarra, in compagnia della tastierista Jo Schornikow.
La setlist privilegia comprensibilmente i brani di “Muchacho”, suonato quasi nella sua interezza, con l’apice assoluto (almeno per chi scrive) di “Song For Zula”, che citando “Ring Of Fire” di Johnny Cash racconta in maniera toccante le sofferenze d’amore del suo autore, la difficoltà di aprirsi verso un’altra persona senza rimanere scottato.
C’è spazio anche per qualche episodio più vecchio, ma non così tanto come molto avrebbero sperato. Solo due estratti da “Here’s to takin’ it easy” (tra cui la malinconica “Tell Me Baby”), del quale sono state tralasciate molte delle cose più belle. Sorpresa per l’esecuzione di “Joe Tex, These Taming Blues” dal secondo “Aw Come, Aw Wry”, mentre anche il terzo lavoro “Pride” ha trovato il suo momento di gloria con una quasi sciamanica versione di “A Picture Of Our Torn Praise”.
Ma il momento in assoluto più emozionante è stato quando, concessa una pausa alla band, Matthew è rimasto da solo sul palco: prima alle tastiere per una meravigliosa “Muchacho’s Tune”, successivamente alla chitarra per un’esecuzione di “Wolves” in cui gioca coi loop e le sovraincisioni fino a trasformare il tutto in un pastone rumoroso e avanguardista.
Chiude il tutto una dilatata “At Death, A Proclamation”, che andando a rubare il posto a “Los Angeles” (spesso usata come pezzo conclusivo) accentua ancora di più la componente psichedelica dello show milanese.
Un grande spettacolo, dunque, che conferma Phosphorescent come uno dei cantautori più interessanti della nuova generazione e fa crescere la voglia di vedere altri artisti del genere nel nostro paese, ultimamente troppo spesso sacrificato quando non si parla dei soliti grossi nomi.