Bruce Springsteen pubblicherà il 14 gennaio un nuovo disco intitolato “High Hopes”. I rumors che giravano in rete già da qualche settimana erano fondati, dunque. Il problema è che il dibattito infuria, non solo all’interno della numerosa community dei fan dell’artista del New Jersey. Ne vale veramente la pena? Non è passato troppo poco dall’ultimo “Wrecking Ball”? Non è appena finito il tour? Non sarebbe meglio ricaricare le pile? Troppa esposizione mediatica non correrà il rischio di provocare un’inflazione difficile da gestire? 



Queste alcune delle domande in cui ci si può imbattere girando per i vari forum dedicati all’argomento. 

Cercherò di dire la mia, mettendo sul piatto alcune semplici considerazioni. Cominciamo da un semplice dato di fatto: negli ultimi dieci anni, dopo la pubblicazione di “The Rising” e la conclusione del relativo tour, Bruce Springsteen non ha mai fatto passare più di dodici mesi senza pubblicare qualcosa di nuovo. A parte i dischi in studio (cinque in otto anni), abbiamo avuto live album (sia su cd sia su dvd), raccolte con inediti e cofanetti celebrativi con parecchia carne al fuoco. Un’abbuffata che quasi nessun artista così avanti nella carriera ha osato permettersi. Anche sul fronte live, le cose non cambiano: se si escludono il 2004 e il 2011, ogni altro anno solare dal 2002 al 2013 ha visto il Boss calcare i palchi di tutto il mondo, da solo, con la fida E Street Band o con il carrozzone divertente e caciarone della Seeger Session Band. Una media che il solo Dylan del Neverending Tour è riuscito a superare. 



Da che cosa dipende questa scelta? È frutto di un contratto ultra milionario firmato con la Columbia anni fa, come alcuni malignano? È il fido manager Jon Landau che lo sta spremendo finché ce n’è? È lui stesso che, resosi conto di aver oltrepassato i sessanta, sta cercando di godersi il più possibile la dimensione del palco e di prendersi lo sfizio di far uscire materiale ogni qual volta ne abbia voglia? 

Difficile avere una risposta. Sicuramente, rispetto ad artisti altrettanto longevi ma molto più restii a concedersi al mercato (vedi Leonard Cohen, Tom Waits, Van Morrison, solo per citarne alcuni), Mr. Springsteen rappresenta senza dubbio un’eccezione. 



E proprio su questo i fan sono divisi: c’è chi sostiene che sia un bene, perché avere nuova musica del proprio artista preferito non può che far piacere, mentre invece altri rispondono che troppe uscite comportano per forza di cose un abbassamento della qualità. E su questo, in effetti, ci sarebbe da dire qualcosa: il Bruce Springsteen del dopo “The Rising” si è mosso tra alti e bassi, ha pubblicato cose buone (“Magic”, “We Shall Overcome” con la Seeger Session), altre molto meno (“Working On A Dream” su tutti ma anche l’ultimo “Wrecking Ball” non brilla per intensità) ma niente di davvero memorabile. 

Sono in molti a pensare che la sua vena creativa si sia esaurita da un pezzo e che sarebbe molto meglio lasciar perdere progetti e progettini per dedicarsi finalmente ad un “Tracks” volume 2 visto che, a detta di molte fonti vicine all’artista, sarebbero molte le outtake lasciate fuori da quel monumentale cofanetto del 1998. 

Sia come sia, l’imminente uscita di “High Hopes” ha riacceso il dibattito e ha fatto capire chiaramente a tutti che, a meno di improvvisi ripensamenti, il rapporto di Springsteen col music business non è destinato a cambiare. 

Ma che cosa esattamente ci troveremo tra le mani il prossimo 14 gennaio? Nonostante la Columbia lo stia pubblicizzando come un nuovo album, sarebbe meglio chiarire che tecnicamente non si tratta di questo. “High Hopes” contiene infatti parecchio materiale che, o non è del tutto inedito, o non è stato scritto da Springsteen stesso. Cominciamo dalla title track: gli springsteeniani accaniti se la ricordano bene, dato che questa cover dei californiani Havalinas era già stata incisa nel 1995, all’interno di una session con una temporaneamente riunita E Street Band, che aveva come scopo quello di incidere alcuni inediti per un Greatest Hits di imminente pubblicazione. Alla fine quel brano fu scartato (se ne può giusto sentire un estratto nel documentario “Blood Brothers”, che racconta quelle sedute) e stessa sorte ebbero la divertente “Without You” (che da anni circola sui bootleg) e un tentativo “full band” di “The Ghost Of Tom Joad” che verrà ripescata poco dopo all’interno del disco omonimo. 

“High Hopes” era ritornata agli onori della cronaca all’inizio del tour australiano di quest’anno, quando fu utilizzata per aprire i primi spettacoli nella terra dei canguri. Oggi sappiamo perché: in quei giorni la E Street Band registrò del materiale, edito e non, assieme a Tom Morello, l’ex chitarrista dei Rage Against The Machine che aveva sostituito momentaneamente l’indisponibile Steve Van Zandt. Proprio la Columbia ha infatti annunciato che il disco in uscita conterrà proprio i risultati di quelle session, assieme ad altre effettuate tra Atlanta e il New Jersey. Il brano degli Havalinas è stato usato anche come singolo di traino ed è un buon pezzo grintoso e ritmato, in questa nuova versione impreziosito dai fiati e dai cori che la E Street Band ha di recente acquisito. 

Su alcune delle scelte presenti in scaletta, tuttavia, qualche dubbio è lecito averlo: “The Ghost of Tom Joad” cantata e suonata assieme a Morello, con la partecipazione di tutta la band, costituisce senza dubbio un episodio valido. Chi scrive la vide a Londra nel 2012 e può testimoniare che fu una gran cosa. Da qui ad inserirla nella tracklist però ce ne corre. Siamo sicuri che non ci fosse qualche inedito in più da far conoscere? Stessa cosa per “American Skin”, una song che Springsteen compose nel 1999 assieme a “Land of Hope and Dreams” e che fu suonata per tutto il tour di quell’anno e di quello successivo, finendo poi immortalata nel “Live in New York City”. Se la sua gemella aveva trovato posto in versione studio all’interno di “Wrecking Ball”, questa viene invece ripescata per questo lavoro. Per quanto mi riguarda, non la digerivo dal vivo, dubito che mi prenderà ora. 

Un altro pezzo che i fan accaniti conoscono bene è “The Wall”: scritta nel 2003 assieme al vecchio amico Joe Grushecky dopo una visita al famoso Veteran War Memorial di Washington DC, fu presentata per la prima volta dal vivo nello stesso anno, durante un concerto acustico benefico organizzato al Somerville Theater di Boston. Successivamente fu accantonata, per fare solo una breve apparizione durante il tour di “Devils & Dust”. Si tratta di un brano piacevole ma certamente non imprescindibile, ispirato alle cose più folk del periodo di “Tom Joad”. 

Una vecchia conoscenza è anche “Dream Baby Dream”, cover dei Suicide, che durante lo stesso tour del 2005 veniva usata in chiusura di show. Una cover è anche “Just Like Fire Would”, dei The Saints, che aveva fatto capolino durante l’ultimo tour australiano. 

I restanti sei brani dovrebbero dunque essere inediti a tutti gli effetti: stiamo parlando di “Harry’s Place”, “Down in the Hole”, “Heaven’s Wall”, “Frankie Fell in Love”, “This is Your Sword” e “Hunter the Invisible Game”. 

Si avrebbe così un disco perfettamente ripartito tra cover e rifacimenti di vecchi brani e pezzi nuovi di zecca o che comunque non avevano mai fatto capolino in precedenza. Un’operazione che il Boss non aveva mai tentato, anche se bisogna dire che già nel precedente disco era apparsa qualche cosa già utilizzata in precedenza (la stessa “Wrecking Ball” era stata suonata in lungo e in largo durante l’ultima leg americana del tour del 2009, per non parlare poi di “Land of Hope and Dreams”).

Che dire dunque in conclusione? Dando ovviamente per scontato che le scelte di un artista appartengono a lui soltanto e che non dovrebbero essere fatte oggetto di chiacchiere da bar, non credo di peccare di presunzione se dico che, solamente a giudicare dalla tracklist, il prodotto questa volta appare davvero poco appetibile, oltre che difficilmente spiegabile. Impossibile però sbilanciarsi ulteriormente, non senza prima avere sentito il lavoro nella sua interezza. Due speranze, a questo punto: che sia un album sufficientemente amalgamato e che i pezzi ancora ignoti ci regalino uno Springsteen più in forma di quello delle ultime prove in studio. Se sarà così, le critiche non reggeranno più. In caso contrario, siamo sicuri che ci sarà comunque gente che lo comprerà a scatola chiusa (e tra di loro sicuramente ci sarò anch’io). 

Rimane dunque da rispondere ad un ultimo quesito, anche questo ossessivamente rimbombato in questi giorni: ci sarà o non ci sarà un tour a supporto di “High Hopes”? Se dobbiamo dare retta a Steve Van Zandt, recentemente espressosi sull’argomento, sembrerebbe di no. A parte le date in Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica previste per l’inizio dell’anno, non pare che ci sia nient’altro in programma. Ma si sa che Bruce è imprevedibile e che la voglia di salire sul palco potrebbe riportarlo in giro in tempi molto brevi. Per quanto mi riguarda, devo confessare che preferirei si prendesse una pausa. Il rischio della ripetitività è dietro l’angolo, soprattutto dopo aver visto gli ultimi show, troppo spesso incentrati su una sicura riproposizione del vecchio copione. 

Ovviamente però l’ultima parola spetta a lui. Del resto so benissimo che se decidesse di tornare dalle nostre parti sarei il primo a comprare un biglietto. Con una sola richiesta: se possibile, questa volta, non a San Siro…