Sera piovosa, non c’è tanta voglia di uscire, ma mia figlia mi convince: andiamo al concerto di Johnny Flynn. E chi è Johnny Flynn? Sapevo che appartiene più o meno allo stesso ambiente di Mumford & Sons e Laura Marling, quella Londra acustica che sta generando musica d’autore estremamente interessante, forse perché lì si suona ad ogni angolo di strada e non c’è la SIAE.
Bene: il locale dove suona Johnny è grande tre volte il salotto di casa mia e contiene 150 persone stipate e in piedi (alla fine i musicisti smonteranno i loro strumenti e li caricheranno su un furgoncino, magari hanno risparmiato anche i soldi dell’albergo…). Entriamo e un ragazzo alto, dinoccolato e capelluto suona una specie di DJ set, in cui assortisce suoni, rumori, samples vocali, in architetture reiterative ma interessanti. Scopriremo più tardi, parlandoci, che si chiama Cosmo Sheldrake ed è il tastierista della Band di Johnny, che presentava un opening di suo materiale originale.
Tempo 15 minuti per il cambio palco e senza tante storie, alle 21 come annunciato, Johnny Flynn attacca. Lo accompagnano il già citato Cosmo, che si alterna fra tastiere, organo a mantice, contrabbasso e percussioni, ed altri 4 strumentisti: basso, batteria, un polistrumentista che suona sia il violoncello che una chitarra elettrica ed infine Lillie, la sorella di Johnny che suona anche lei le tastiere ed arricchisce le tessiture vocali. Johnny suona chitarra, banjo, tromba e violino, cantando naturalmente con grande intensità tutti i pezzi.
Come già intuibile dal mio inizio, non ne sapevo nemmeno una… ah no, una sì, quella che aveva scritto per Laura Marling, The Water. Tuttavia l’esperienza è intensa, e mentre l’ora e mezzo di concerto scorre, fra brani più riflessivi ed altri più coinvolgenti, mi vengono alla mente alcuni paralleli che butto giù al volo sullo smartphone. Fortemente british, fin nel midollo, Johnny Flynn ricorda il piglio di antichi canti marinareschi, e al tempo stesso ha alcune inflessioni vocali che fanno pensare a un Nick Drake meno depresso e intimista, e talvolta ai Doors. L’uso frequente del finger picking fa pensare ad un viaggio a ritroso, ancora prima della musica dei pionieri americani. È come se il country fosse tornato ancora più indietro, alle radici che lo generarono.
Però cantato in perfetto inglese e con una modalità vocale totalmente british, appunto, continuamente spezzata nell’accompagnamento strumentale da battute irregolari che continuamente cambiano gli accenti musicali, per adattarli alle parole, alla storia che si vuole raccontare. Alla fine il concerto è stato davvero godibile, vero, intenso, senza orpelli né inutili aggiunte. Musica, sudore, storie da raccontare e urgenza di raccontarle. Go ahead, Johnny, come qualcuno gli grida dalla folla.
Alla fine Johnny e gli altri escono, sotto la pioggerella, firmano autografi, fanno foto con tutti e scambiano due chiacchiere senza nessun problema. Forse non sono nessuno, forse invece sono veri e fanno quello per cui spendono la vita, non da superstar, ma da grandi interpreti di un folk corposo e autentico, sulle tracce delle radici da cui provengono. Perché tutto ciò mi ricorda tanto qualcosa?