“Non ho mai voluto che mia mamma venisse a trovarmi in carcere, non volevo che mi vedesse dietro quelle sbarre, non potevo darle un così forte dolore e le dicevo che l’avrei raggiunta io perché sapevo che avrei lottato sino alla fine”. Dante Brancatisano è oggi un uomo libero, anche se il suo caso giudiziario non è ancora concluso. Ma certamente non è più in galera, dove ha passato tre lunghi anni da innocente. Musicista calabrese, una lunga carriera alle spalle sin da quando ancora ragazzo militava nel gruppo I Pitagorici, Dante ha avuto nella sua vita una sola colpa: quella di essere nato in Calabria. L’8 aprile del 2003 la polizia entra in casa sua a Samo in provincia di Reggio Calabria e lo arresta: l’accusa è quella di essere un “capo bastone”, un boss della ‘ndrangheta. Finisce nel reparto di massima sicurezza del carcere di Bergamo dove passerà tre anni e 25 giorni, dopo essere stato condannato in primo e secondo grado. La Cassazione però lo ritiene innocente ma rimane in carcere. Nel 2006 viene finalmente scarcerato. Oggi vive a Lugano in attesa che il tribunale di Reggio Calabria sbrogli definitivamente la sua vicenda. Per raccontarla, ha scritto un libro (“Storia straordinaria di un uomo ordinario”) e adesso pubblicato un disco, “Via Gleno” dal nome della strada dove si trova il carcere in cui è stato rinchiuso. Un disco molto bello, di ottimo rock italiano alternato ad eleganti ballate pop, dalla grande presa emotiva e impreziosito da una delle più belle voci del nostro panorama, con l’accompagnamento di alcuni grandi della scena italiana, ad esempio l’ex chitarrista di Vasco Rossi, Andrea Braido. Ecco cosa ci ha raccontato.
Parlare di giustizia e magistratura oggi inevitabilmente sembra essere relegato a ben noti casi politici. Ma al di là di questi, esistono da decenni esempi di innocenti finiti dietro le sbarre, o persone in attesa di giudizio con tempi lunghissimi. Casi che sono ignorati. Pensi che ci sia un reale problema di mala giustizia e che essa debba essere riformata?
Sì sono d’accordo, c’è un grosso problema di mala giustizia. Posso confermare che vivendo per tre anni dove mi hanno costretto a vivere ne ho viste talmente tante che sicuramente riempiremmo pagine intere se non addirittura un libro sulle ingiustizie di questa giustizia. Va riformata al più presto, in modo da evitare che altre vite innocenti vengano sradicate, va sicuramente rivisto il potere che certi magistrati usano a loro piacimento. Sopratutto occorre evitare che certi magistrati firmino mandati di arresto senza averti visto mai in viso ma solo perché il PM che occupa la stanza affianco lo chiede. Amministratori di giustizia che nonostante il cattivo lavoro in breve tempo li ritrovi ad occupare posti di maggior responsabilità come procuratori capo.
In quei tre anni passati in carcere, cosa ti ha aiutato a non perdere la speranza, a sostenerti?
Mi ha aiutato molto il fatto di essere un combattente nato, mi ripetevo ogni giorno io devo farcela e dimostrare a tutte le persone che mi vogliono bene la mia innocenza. Mi ha aiutato la mia famiglia, persone perbene e umili lavoratori. Non ho mai voluto che mia mamma venisse a trovarmi in carcere, non volevo che mi vedesse dietro quelle sbarre, non potevo darle un così forte dolore e le dicevo che l’avrei raggiunta io perché sapevo che avrei lottato sino alla fine. E non è ancora finita.
C’è un episodio di quei tre anni che vorresti ricordare come esempio di speranza per tutti quanti si trovano ancora in carcere vittime dell’ingiustizia?
Il primo colloquio con mio papà dopo circa due mesi di reclusione. Lui era venuto a Bergamo dalla Calabria, non mi aspettavo il colloquio ero in isolamento totale, il mio aspetto non era dei migliori non avevo quasi nulla, non potevo avere nulla, vestiti dati dalla Caritas e barba incolta. Con lui da sempre ho avuto rapporti difficili per via della mia scelta di essere musicista mai gradita. Vederlo lì fu un colpo al cuore, pianse tutto il tempo, mi stringeva le mani e mi ripeteva che sapeva della mia innocenza. Lì in quel colloquio ho ritrovato il mio papà, lì ho capito quanto mi amava e ho pensato che se il carcere e l’ingiustizia subita mi hanno fatto ritrovare il mio babbo avrei potuto affrontare tutto con meno dolore. A chi sta dietro le sbarre posso solo dire di non mollare mai perché magari attraverso un’ingiustizia si può ritrovare l’amore che ti dà la forza di lottare.
Il tuo disco è un gran bel disco di rock italiano come è raro ascoltare. Si sente un gran lavoro musicale: come è stato lavorare con musicisti come Andrea Braido e i tanti che ti hanno accompagnato?
Lavorare con questi fantastici musicisti di caratura mondiale e stata la gioia più bella; emozioni indimenticabili. Ognuno ha lasciato il segno e si sente, persone umili e vere. Volevamo tutti che fosse un disco vero, autentico, capace di esprimere le emozioni che ognuno sentiva brano per brano. Sinceramente questa considerazione detta da te, che sei un esperto in materia, ci rende orgogliosi e sicuri che il messaggio musicale che volevamo portare è arrivato.
Dal punto di vista lirico, pur essendo evidente un sentimento di sofferenza, non trapela odio o rabbia nonostante quello che hai vissuto: è una impressiona giusta?
Sì giustissima. Non ho voluto portare odio e rabbia; non serve a nessuno. Non è facendo la guerra che miglioriamo la società, rimango dell’idea che il confronto e il dialogo servano di più. Attraverso alcuni brani ho ripercorso quel sentiero di sofferenza e ingiustizia vissuta immergendomi nel dramma subito.