Sembra strano, a dirsi, ma Bob Dylan, nei suoi trent’anni di calate in Italia da quella prima volta nel 1984, non aveva mai suonato prima in un teatro. A parte la splendida cornice dell’Arena di Verona, un paio di volte, per il resto sempre e soltanto palazzetti dello sport dalla pessima acustica, campi di pallone inariditi o affondati nel fango. L’eccezione è stata qualcuna delle nostre splendide piazze medievali. Si sa che la musica rock è qualcosa di viscerale che si vive in qualunque condizione (pur alcuni, peggio è la condizione ambientale meglio è), ma certamente una sede come il Teatro degli Arcimboldi, pensato per la musica classica, Bob Dylan l’ha finalmente meritata. E per ben tre sere consecutive, anche se oggi il cantante presenta scalette sempre simili ogni sera, con una ritrovata professionalità e attenzione al particolare che fa un po’ rimpiangere lo zingaro irriverente e arruffone che anni fa cambiava e improvvisava le scalette direttamente sul palco. Chi scrive ricorda ancora gli sguardi terrorizzati dei suoi musicisti sul palco quando una sera, a Roma, buttò lì con nonchalance una Homeward Bound di Simon and Garfunkel evidentemente mai provata prima e di cui si era ben guardato di avvertire che l’avrebbe suonata.



Il Dylan di oggi presenta uno spettacolo ben ferrato e ben provato, con la novità, in questi concerti europei autunnali, di presentare molti dei pezzi che compongono il suo ultimo disco in studio, “Tempest”, dunque una novità per tutti colore che lo vanno a vedere.

Per Bob Dylan in concerto vale sempre il vecchio assioma: andare a vederlo è come assistere a William Shakespeare che sta mettendo in atto la sua ultima opera. Ma, viceversa, anche quanto disse una volta un amico americano: Dylan oggi è come uno dei volti scolpiti sul Monte Rushmore, uno dei padri dell’America, ma anche una scultura fissata e immobile nella sua grandezza, che non dice e non comunica nulla se non la propria effige. Dunque si va a vedere una leggenda, a prescindere da quello che eseguirà e da come lo eseguirà. Lui, con il suo volto glaciale da cui non traspare alcuna emozione e la distanza con cui si tiene dal pubblico, non fa nulla per smontare l’idea di un monumento.



Nonostante ci si affanni ancora a definirlo il menestrello, il Dylan di oggi è lontano anni luce dall’immagine che di lui ha il grande pubblico o la grande stampa: la chitarra, ad esempio non la prende in mano da anni. E’ una sorta di Mr Bojangles, il ballerino di colore che si esibiva nei Vaudeville Show dell’America ottocentesca; è una specie di Frank Sinatra che incrocia Leonard Cohen, un song and dance man quando in piedi con il microfono in mano si concede nudo alla platea con movenze bizzarre e clownesche. Che la chitarra, nell’immaginario rock, ha sempre costituito una sorta di barriera difensiva del performer nei confronti del pubblico. E’ un pianista di piano bar, un anziano jazzman quando si mette al pianoforte, cercando nei tasti le corde dell’anima con la predisposizione di una specie di Jerry Lee Lewis. Ma è anche un rocker: come disse una volta Bill Flanagan, se mai le generazioni future avranno il ricordo di un vero rocker, quello sarà Bob Dylan. “C’è troppo rock’n’roll dentro di me” ha detto recentemente lui stesso “non riesco a non tirarlo fuori”. Per uno che vide l’ultimo concerto di Buddy Holly prima della sua morte, ci crediamo, e sappiamo che è così. D’altro canto non si scrive la più grande canzone rock di tutti i tempi, Like a Rolling Stone, se non fosse così.



Nello spettacolo che ha portato per tre sere agli Arcimboldi però di rock’n’roll non ce n’è quasi l’ombra se si esclude qualche accenno ma ben tenuto a freno nel primo dei due bis, All Along The Watchtower, eseguita – pazzesco – senza quasi un assolo di chitarra, o comunque solo pochi accenni e ogni uso di distorsore assolutamente vietato, per la canzone con cui Jimi Hendrix fece l’emblema stesso dell’esplosione chitarristica, anche se l’anima rock è ben sottintesa e quasi gli scappa di mano in più momenti, intrattenibile. D’altro canto siamo autenticamente in un “time out of mind”, un tempo immemorabile: siamo nell’America degli anni 40, primissimi anni 50, alla caccia dei fantasmi di Robert Johnson, Hank Williams e Nat King Cole. La musica che Dylan e la sua band eseguono è un elegante e purissimo country swing, eseguito come lo si poteva sentire al Ryman Auditorium di Nashville quando ancora Elvis faceva l’autista di camion e manco pensava di andare alla Sun Record a incidere il suo primi 45 giri.

Dylan e i suoi sono avvolti sempre nella semi oscurità, pochissime luci che calano da sopra di loro e dietro di loro, mai illuminati frontalmente, potrebbero essere una band di spettri che lo spettatore osserva su una pellicola ritrovata misteriosamente dopo sessant’anni: non concedono nulla al pubblico, neanche uno sguardo, i visi si fa fatica a riconoscerli e si guardano solo tra di loro, annuendo compiaciuti a qualche nota ben riuscita e guardando sempre il capo banda. Stiamo guardando uno spettacolo di un secolo fa: è un ritorno al futuro, ed è bellissimo, perché il tempo, in queste serate, è davvero un concetto che non ha importanza e non esiste.

Ci riporta alla realtà solo la frase pronunciata da dietro le quinte: vi invitiamo a seguire lo show non attraverso gli schermi dei vostri telefonini o tablet, ma guardandolo con i vostri occhi dal vivo: “Preferiamo che vediate il concerto dal vivo piuttosto che su un piccolo schermo”. Finalmente qualcuno che lo dice.

Improvvisamente si  sente una chitarra acustica da dietro le quinte suonare impetuosa, nel buio si distinguono delle figure muoversi, poi le – scarse – luci si accendono e lui, Bob Dylan, è davanti al microfono a guidare la sua band di spettri con una sferragliante, roboante e ben eseguita Things Have Changed, la canzone dell’Oscar. “I tempi sono strani, la gente è pazza: una volta me ne importava, ma adesso le cose sono cambiate”. E’ il manifesto del Dylan del terzo millennio: il mondo fa schifo, lo avete distrutto, siete dei pazzi assassini, io me ne frego e vado per la mia strada.

Bob Dylan però ha la sua età, 72 anni e mezzo, di cui oltre cinquanta passati sui palchi di tutto il mondo. E’ visibilmente stanco la prima sera e per due terzi dello show fa fatica anche a cantare. Ne segue infatti una debole e malconcia She Belongs to Me, uno dei pochissimi pezzi del repertorio anni 60 quasi del tutto ignorato, e quindi una stucchevole Beyond Here Lies Nothingche sembra non decollare mai. Lo stesso accade con il primo pezzo tratto da “Tempest”, Pay in Blood, che su disco suona come un furioso rock blues, dal vivo perde smalto e vivacità. Meglio la delicata poesia di What Good I Am?, dolcemente eseguita al pianoforte: una preghiera, ecco il peccatore che si chiede che cosa è la sua presunta bontà se non si accorge della gente che muore di fame.

 Il mood country swing esplode in pieno nel divertente valzerone Waiting for You e in Duquesne Whistle dove però purtroppo Dylan mostra un vistoso affaticamento vocale. Sorvolando su una terribile, svogliata, rovinosaTangled Up in Blue che non gli riesce dal vivo probabilmente dal 1984, la prima parte dello show si conclude con una potentissima, nera, addirittura gotica Love Sick, i versi sputati con veemenza e orgoglio e sprazzi di armonica cattivissima, una esecuzione che avrebbe fatto l’invidia di Nick Cave.

Con un “grazzzie” in italiano, Dylan annuncia un quarto d’ora di pausa. Che evidentemente gli fa bene. La seconda parte dello show inizia con una intensa High Water  Everywhere con un bel banjo in gran spolvero e ancora splendidi momenti di armonica. Si rimette al piano per una passabile Simple Twist of Fate seppur eseguita col pilota automatico, poi la sorpresa della serata. Chiama il fido bassista Tony Garnier, direttore musicale della banda, e gli dice qualcosa. Su due piedi ha deciso di togliere dalla scaletta la prevista Early Roman Kings e si lancia invece in una straordinariamente bella Desolation Row, i versi enunciati con pulizia e sentimento, enfasi e amore, la linea melodica originale assecondata al massimo: il pubblico degli Arcimboldi, a giudicare dall’applauso esplosivo, sembra non aspettasse altro.

E’ un momento magico che continua con la successiva Forgetful Heart: da solo in mezzo al palco, un violino romanticissimo alle spalle, Dylan è ora Jacques Brel o Charles Aznavour, cantore romanticissimo con il cuore da gettare, a pezzi, tra il pubblico. Se c’è qualcuno in grado di raccogliere un cuore come questo. Straordinario.

 Tralasciando la sempre noiosissima e inutile Spirit on the Water che fa da anti climax, il finale è tutto da godere. Prima una scorbutica, inquietante e incalzante Scarlet Town, memore delle antiche pagine della letteratura folk popolare di secoli fa, fatta di omicidi e abusi (come oggi, si potrebbe dire, che certe cose non cambiano mai) poi un salto negli anni cinquanta e il fondo del palco si riempie di lumicini. Con Soon After Midnnight Dylan adesso è un disinvolto crooner tra Fats Domino e Dean Martin, cantore di dolcezza inestimabile con un Charlie Sexton finalmente sugli scudi.  Quindi l’esplosione finale che non ti aspettavi più, e che esplosione.

Già su disco Long and Wasted Years a tutti era apparsa il pezzo migliore di “Tempest”:  dal vivo è una bomba atomica. Dylan si impossessa del microfono centrale, la band finalmente si ricorda di avere in mano delle chitarre elettriche e rilascia note a cascata roventi e implacabili. Eccolo il rocker, eccolo quel “vicious” da cui Lou Reed ha imparato molitssimo. Il suo volto, quel poco che se ne vede, diventa irriconoscibile, è la maschera del Jokerman. Urla, impreca, spacca ogni muro, si eleva come il gigante che sappiamo essere, vomita versi, recita una poesia antica come il mondo, implora l’amore che si è fatto cenere e lo reclama in nome di Dio, quasi bestemmiando quel Dio che glielo nasconde. Impaurisce e commuove. Certo, avremmo voluto che tutto il concerto fosse stato a questi livelli, ma siamo avvinghiati alle poltrone, investiti da questa onda al calor bianco che ci fa capire che sì, se mai le generazioni future si ricorderanno di un rocker, questi sarà Bob Dylan.

Il doppio bis finale è piacevole e nulla più: All Along the Watchtower è dilatata e spogliata della sua ira antica, Blowin in the Wind il pubblico sembra neanche riconoscerla, ma certamente ribalta il cinismo di inizio concerto. Evidentemente anche se la gente è strana e i tempi sono cambiati, vale ancora la pena porsi le domande esistenziali della vita e chiedere un mondo migliore.

Come una scultura sul Monte Rushmore, Dylan se ne sta in piedi immobile per un paio di minuti a raccogliere gli applausi: nessuna emoziona trapelerà mai dal suo viso di ghiaccio.

E’ la seconda serata al teatro Arcimboldi, siamo impazienti di scoprire quale, se ci sarà, sarà la sorpresa di questa sera, se Dylan sarà in forma esplosiva per tutte e due le ore oppure no. Questa ser andiamo di sopra, nel secondo loggione dove con grande sorpresa scopriremo che si sente molto meglio delle prime file sottostanti: il suono è meno impastato e più decifrabile. Ma soprattutto scopriremo un Dylan in formissima, ristorato dopo la prima serata e carico di energie. Canta molto meglio, lo si sente anche in Tangled Up in Blue che questa sera ha una direzione verso casa e non è più persa negli incubi del cantante. Anche Pay in Blood è più disinvolta e più carica di energia, ma così è  tutta la serata. Mi verrebbe da dire che anche Spirit on the Water per la prima volta è ascoltabile e divertente, con quel mood anni venti che finalmente fa capolino. Duquesne Whistle è il pezzo che gode di più della smagliante forma vocale di Dylan questa sera: è quasi uno scampolo dei tempi gloriosi della Rolling Thunder Revue e la band gira a mille, Sexton soprattutto, godendosi queste visioni di un’America antica come la sua promessa.

Quando poi sembra che la serata debba filare tutta come quella precedente, anche stasera Tony Garnier lascia la sua postazione per avvicinarsi al boss. Nel tripudio generale parte la sorpresa in cui speravamo senza dirlo ad alta voce: Visions of Johanna. L’anfetaminica, schizoide, paranoica ma bellissima ballata che era su “Blonde on Blonde” diventa un’ode, un canto, a quella New York di metà anni 60 che era l’ombelico del mondo, della contro cultura, degli hipster e dei viaggi acidi, in cui Dylan bazzicava la Factory di Andy Warhol, si contendeva le amanti con Brian Jones e Lou Reed. E’ la sua New York City Serenade e la canta a polmoni pieni con uno struggimento che lascia senza fiato. Difficilmente abbiamo mai sentito un Dylan di questo livello stratosferico, in Italia.

Il resto della serata presenterà ancora una devastante Long and Wasted Years e le altre perle come da copione. Mai Dylan ci aveva condotto per mano più sicura nelle sue mille visioni, nella sua serie di sogni, nella sua America popolata di spettri e amanti.

 

Ehi, ma manca la recensione della terza serata, dirà il lettore. Già, quella di stasera. La lasciamo a voi, il vostro cronista ha già il cuore abbastanza a pezzi anche se non mancherà alla terza serata. Ve la lascia a voi, da godere e da esplorare, con l’augurio che anche voi possiate intravvedere, tra quelle luci fioche, il segno di quel gran mistero che è la vita e che Bob Dylan ha fatto suo. Come disse una volta: “Il mistero è cosa antica. Viola ogni convenzione sulla bellezza e sul capire le cose. Esisteva ancora prima dell’inizio ed esisterà ancora dopo la fine. Siamo stati creati nel mistero. I Mississippi Sheilks registrarono una canzone intitolataStop and Listen. Per la gran parte degli appassionati è solo un ragtime blues. Ma per me sono parole di sapienza. San Paolo disse che vediamo attraverso un vetro offuscato. C’è un sacco di mistero nella natura e nella vita contemporanea. Per alcune persone è troppo difficile averci a che fare. Ma per me non esiste altra possibilità”.