Nel diluvio di pubblicazioni, non tutte francamente così essenziali, a tema Bruce Springsteen oppure i fan di Bruce Springsteen oppure i concerti di Bruce Springsteen oppure i fan di Bruce Springsteen ai concerti di Bruce Springsteen, il libro di Peter A. Carlin merita una riflessione in più, fosse solo per il fatto che si presenta come “autorizzato” da Bruce stesso.
In effetti, dopo una carriera di 40 anni, sono poche le cose che restano da dire sul cantante del New Jersey, a meno che a dirle non sia lui in persona.
Non è questo il caso, però in attesa di una autobiografia, il volume di Carlin offre spunti interessanti e si lascia leggere molto volentieri.
L’attenzione si concentra principalmente nella prima fase della carriera di Bruce, diciamo fino a “Nebraska\Born in the USA”, quei due dischi così lontani e diversi tra loro, ma in realtà così strettamente legati, che hanno catapultato a metà degli anni 80 Bruce nell’olimpo dei grandissimi della musica; i record, gli stadi pieni, i muscoli e la bandana rappresentano uno spartiacque nel racconto dell’autore, che da quel punto in avanti accelera decisamente. Scelta magari non condivisibile, ma comprensibile, se si pensa a quanto la vita e la carriera di Springsteen siano rimasti sotto i riflettori dal momento in cui invitò a ballare una giovanissima Courtney Cox sul palco durante il video di Dancing in the dark. Invece che tornare sui soliti argomenti (ma dai? Ha divorziato? Ma dai? Si è messo con la sua corista?), Carlin preferisce dedicare più tempo all’inizio della carriera del Boss e soprattutto alla complessità dei rapporti all’interno della sua famiglia.
Difficoltà che spiegano però come parte dei suoi testi siano stati da un lato carichi dei frutti della sua fervida immaginazione, utile per allontanarsi dalle durezze della realtà, dall’altro sempre portatrici di un messaggio di speranza e autorealizzazione.
La carriera di Springsteen è iniziata tra i banchi di una scuola frequentata malvolentieri, è iniziata nelle giornate passate ad osservare come la società stesse lentamente avvelenando suo padre, è cresciuta con la forza di volontà enorme che da sempre lo ha animato e che lo portava a dannarsi su un palco dimostrando a tutti di essere di un’altra categoria rispetto alla pur validissima scena musicale del Jersey Shore.
E se i primi due album sono intrisi della poesia urbana che il volgare ragazzotto nato dalla parte sbagliata del fiume Hudson respirava e rielaborava nella sua mente, il disco che lo fece esplodere è in realtà una lunga, accalorata ed appassionata dichiarazione di intenti: voglio arrivare lontano, voglio arrivare in alto. Born to run, come giustamente risalta nelle pagine del libro, non fu solo un disco, ma più la sublimazione di tutto quello che fino a quel momento aveva popolato la vita di Bruce, forza di volontà, desiderio di affermazione, desiderio di fama e riconoscimento. Me ne sto andando per vincere dice nel primo brano e alla fine dell’album apparve chiaro che lo stava per fare davvero.
L’aspetto che ho apprezzato maggiormente nel libro è il tono relativamente obbiettivo dell’autore, una via di mezzo equilibrata tra l’agiografia adorante alla Dave Marsh ed il libro gossip che cerca visibilità parlando male del soggetto in questione, come anni fa fece Goldman su Elvis e John Lennon. Ne emerge un ritratto di Bruce realistico, che abbina alla innegabile qualità artistica del Boss un profilo umano onesto, fatto di alti e bassi, di rapporti sentimentali difficili e soprattutto dipinge il suo rapporto con la fedele E Street Band in modo meno mitizzato di quanto noi fan crediamo da anni. Un rapporto che ha come cardine imprescindibile il presupposto che il capo è uno e che gli altri sono a sua disposizione. L’aver rappresentato per anni, il continuare tutt’oggi a rappresentare sul palco il mondo e i personaggi delle canzoni di Springsteen ha spesso fatto trascendere il ruolo che la Band ha all’interno della sua discografia e soprattutto della sua vita.
Le amicizie vere, come quelle con Steve Van Zandt e il compianto Clarence Clemons, sono comunque valorizzate ma specialmente prima dello scioglimento del 1991 i rapporti tra Bruce e gli E Streeters non erano affatto improntati a quel cameratismo romantico da banda di pirati che spesso viene spontaneo attribuirgli vedendoli su un palco.
Non so voi, ma una cosa del genere, che io avevo sempre sottovalutato, mi restituisce per assurdo un’immagine più vera e concreta del musicista che più amo, valutarne gli eventuali difetti non mi sminuisce la valutazione, ma me lo rende più umano e me ne fa apprezzare maggiormente i pregi.
Leggere delle difficoltà a restare in una relazione stabile, degli scatti d’ira, delle sfuriate dettate dalla gelosia, mi fa capire come alla fine, l’essere arrivato a 64 anni portando avanti con coerenza un messaggio lineare e coerente sia un’eccezione nel mondo del music-business.
Per una valutazione più completa dell’universo springsteeniano, sono molto utili le pagine che parlano della sua famiglia, del nonno con cui condivideva silenzi e lavori, della capacità di inventare storie per la sorellina, del legame comunque solido con la famiglia nonostante la lontananza, dell’insieme di valori in cui Bruce credeva in modo quasi religioso e che lo portarono a sentirsi così profondamente tradito da Mike Appel dopo Born to Run; una vicenda emblematica di come la sua carriera sia rimasta sempre in equilibrio tra ambizione ed onestà.
Gli sporadici interventi diretti di Bruce nel libro ci restituiscono alcuni retroscena relativi ad aspetti privati che puntualmente sono finiti nelle sue canzoni, perché come disse Bono il giorno in cui Bruce entrò nella R’n’R Hall of Fame, la vita del Boss non aveva bisogno di gossip per essere svelata, bastava leggerne i testi.
(Il Cala)