“Cercate di andare oltre le apparenze” ci dice Daniela, una volontaria, quando ci accoglie fuori dal carcere di San Vittore. Sono le 13 di Sabato 14 dicembre e, insieme ai volontari dell’associazione “Incontro e presenza”, sto entrando con altri tre amici nel settore dei “Ragazzi adulti” del carcere milanese per cantare, suonare e per mangiare una fetta di panettone. Anche qui, dietro le sbarre, si ricorda il Natale.
Non è facile andare oltre le apparenze. Il carcere di San Vittore è nel cuore di Milano e intorno alle sue alte mura scorre la vita della Milano migliore: facce abbronzate da alta montagna, belle donne e belle case. Qua l’apparenza è evidente: fuori stanno i buoni, dentro i cattivi. Punto.
Sbrighiamo qualche pratica di rito, passiamo nel metal detector e attraversiamo una spessa porta di vetri antiproiettile e di inferriate. Quando si chiude alle mie spalle vengo preso da uno strano senso di claustrofobia psichica e vorrei uscire subito, vorrei scappare fuori. Inizio a pensare che forse nel mio inconscio c’è qualche antico reato che devo ancora scontare o qualche senso di colpa che mi fa sentire uno di loro, un carcerato, e mi fa pensare istintivamente ad una via di fuga. Sento altresì tutta l’inutilità apparente di quello che sto facendo: non è possibile che dei ragazzi di 20 anni possano essere interessati a qualche canto fatto con qualche sconosciuto, non è possibile che abbiano in testa altro che non sia uscire da quel posto il più in fretta possibile, fossero anche i peggiori criminali.
Percorriamo un corridoio che odora di fumo di sigaretta, entriamo in una porticina sulla sinistra e percorriamo tre piani di scale strette tra gli sguardi sgranati e incuriositi dei ragazzi poggiati ai muri del carcere. Arriviamo in una biblioteca, ovvero una stanza due metri per tre con alcuni libri, e capiamo subito che là dentro non ci staremo tutti. Combatto una fastidiosa commozione pensando che tra poco io uscirò da qua dentro: “mi commuoverò a casa di nascosto” mi dico.
Vedo i secondini e mi domando se sia necessaria più forza che rassegnazione per fare quel lavoro. Intanto scopro che nel carcere l’odore di sigaretta è dappertutto. Ovvio: qua fumano tutti, agenti di custodia compresi.
Ci sistemiamo nell’androne fuori dalla biblioteca e cominciamo a suonare il primo brano in scaletta. Non facciamo in tempo a finire la prima canzone che due ragazzi tirano fuori alcuni enormi tamburi e iniziano ad accompagnarci rumorosamente, non senza averci chiesto il permesso. Contemporaneamente un ragazzo del nord Africa, Zaccaria credo se non ricordo male, ci chiede di accompagnarlo mentre canta una canzone in francese della sua terra. Seguiranno un canto rumeno, un canto napoletano, un coro da stadio e un rap improvvisato in francese cantato sempre da Zaccaria che il nostro Zot accompagnerà alla fisarmonica. E la scaletta va a farsi benedire.
Ad un certo punto i ragazzi urlano che è il compleanno di Cuba: “CUBA! CUBA!” gridano, ma di Cuba neanche l’ombra… Ho come un senso di invidia per Cuba, magari è scappato: “CUBA LIBRE!” – penso e rido da solo. Mi sto divertendo, inaspettatamente. Anthony, quello il vero nome di Cuba, si paleserà invece dopo dieci minuti e sarà travolto da una versione da stadio di “Tanti auguri”.
Decidiamo di insegnar loro una danza irlandese. Partono gli sfottò tra gruppetti di amici e di connazionali appena qualcuno inizia a ballare ma il boato più grande c’è quando si alza per ballare tale “Vela”, o un nome simile, spalleggiato da due palestrati: devono essere il trio dei più duri. Chiuderemo la performance con una intensa versione di “Mi sei scoppiato dentro al cuore” cantata da Martina, una volontaria, che si meriterà prima il surreale silenzio degli oltre cinquanta ragazzi presenti e poi il loro applauso scrosciante.
Finiremo le oltre due ore di permanenza nel carcere mangiando panettone e chiacchierando con i ragazzi. Scopro che Zaccaria sta in carcere da tre giorni ma, mi dice sicuro: “Sono innocente… adesso il tribunale mi farà uscire…”. Del resto, come dice Morgan Freeman nel film “La ali della libertà ”, in carcere sono tutti innocenti. O forse siamo tutti colpevoli di qualcosa, dentro e fuori al carcere. Alla fine Ash, un soprannome che lascia pochi dubbi ai motivi della sua presunta innocenza, ci ringrazia e grida: “Grazie per quello che avete fatto! Avete trasformato un’inutile pomeriggio noioso in qualcosa di cui ci ricorderemo!”.
Grazie a te, penso io, per avermi fatto andare oltre l’apparenza: credevo di venire qua a salvarvi invece mi avete salvato voi. Saranno anche i peggiori delinquenti, ma sono molto più simili a me di quanto pensassi. In fondo abbiamo un po’ tutti una pena da scontare in questo mondo, dentro e fuori da un carcere: basterebbe andare oltre le apparenze per rendersene conto ed avere la libertà di ammetterlo. Già, la libertà.
Prima di uscire il mio sguardo cade su una stella cometa di cartone appesa sa Dio da chi con del nastro adesivo alle inferriate di una stanza: del resto, penso, se anche i Re Magi cercavano Gesù per donargli quello di più prezioso che avevano, forse qualche cavolata da farsi perdonare ce l’avevano anche loro.
“Buon Natale” diciamo ai ragazzi e ce ne torniamo a casa.
(Francesco D’Acri)