Come tutte le cose, anche di una tournée se ne capiranno contenuti e contorni col tempo. Vale la pena però segnalare alcune cose. Quello che ad esempio si legge in gran numero sui social network a proposito dell’ultimo tour di Bob Dylan, che ha recentemente toccato anche l’Italia con ben sei date. Persone più scafate e con più esperienza live del sottoscritto, ad esempio, quasi unanimemente sottolineano di essersi trovati davanti i migliori concerti di Dylan da lungo tempo. C’è chi dice i migliori addirittura dal 1995, chi dal 2000, chi dal 2003. Viene ovviamente da chiedersi perché. Viene anche da chiedersi se Dylan, con rare eccezioni, non abbia buttato via quasi dieci anni della sua carriera, gli ultimi. Lo dicono anche i media, specie quelli inglesi solitamente molto acidi e critici con Dylan (un po’ con tutti, in realtà). 



Ecco cosa ha scritto The Independent ad esempio dopo il secondo show di Londra:  A stunning return to form. Where he has gone through the motions in some recent tours, tonight he stood without guitar in front of his band at the front of the stage, not just reinterpreting his songs, but doing so with care and feeling. The voice that can be a relic of past triumphs was marvellously and unexpectedly once more an instrument, elongating syllables in vintage style”. Un ritorno alla forma (migliore), una voce meravigliosamente e inaspettatamente ancora una volta uno strumento. Il dubbio che gli ultimi anni Dylan li abbia buttati via dal punto di vista concertistico si  fa sempre più forte. Dal 2004 al 2009 circa le sue esibizioni sono state trascurate, mal eseguite, senza cura e senza impegno, con una band di accompagnatori a cui era vietato fare un assolo e con arrangiamenti di livello bassissimo. Non era la prima volta nella sua carriera, ma mai per un periodo di tempo ostinatamente così lungo. Dylan per la cronaca era già tornato alla forma ottimale almeno in parte dal 2011: quell’anno fu protagonista di ottime esibizioni, basti pensare quella che tenne all’Alcatraz di Milano o quelle durante il tour insieme a Mark Knopfler.



Di svolte Dylan ne ha fatte tante, e di ritorni alla forma migliore anche, ma mai dopo così tanto tempo pensando anche l’età che ha oggi. Si potrebbe gettare lì un pensiero. I lunghi anni di Never Ending Tour, quel tour senza fine cominciato nel giugno 1988 senza mai una pausa, così ricchi di improvvisazioni, sperimentazioni, scalette selvagge, brani e cover rare, hanno creato una sorta di leggenda metropolitana, anche tenendo conto di quanti giovani hanno conosciuto Dylan per la prima volta proprio durante il NET. L’idea che si sono fatta di lui ha quasi spazzato via quella reale, facendo credere che l’unico vero Dylan sia stato quello del NET, in qualunque modo si sia presentato sui palchi. 



Il Dylan di questo tour appena concluso è invece stato tutto l’opposto, l’esempio della massima professionalità: scalette rigidissime con pochissime eccezioni (le due serate “pazze” di Roma restano un mistero ancora da chiarire, ma forse neanche tanto), quasi tutte in terra italiana, le tre meravigliose esecuzioni di Milano di Hard Rain, Visions of Johanna e Desolation Row, eseguite solo in quell’occasione lì. Ha fatto promozione al suo ultimo disco, come fanno tutti gli artisti in tour, con l’esecuzione di molti brani di “Tempest”. Esecuzioni di livello altissimo, dove la band dietro a lui era finalmente una vera band e creava con lui alchimie che enunciavano un Bignami della storia della musica americana degli ultimi e più cent’anni come nessun altro oggi sa fare, con attenzione massima a non infilare nei limiti del possibile una nota sbagliata o una improvvisazione fuori luogo. Una novità dylaniana? Tutt’altro: è il Dylan di sempre. Anche quello che lascia – a gente di bocca buona – luoghi comuni come: Dylan stravolge le sue canzoni, non le si riconoscono. Palle.

Dai tempi in cui era un folksinger solitario, così si è sempre presentato Dylan: scalette rigidissime e sempre identiche, massima professionalità e cura dell’esecuzione. Così fu nel primo tour elettrico (ok, c’era un sacco di droga in circolo che rendeva le esecuzioni sopra le righe), e poi nel 74, nel 75 e 76, e nel 78, apoteosi del Dylan professionista massimo e infatti uno dei suoi tour più affascinanti di sempre. E ancora nel 79, nell’80, nell’81. E poi nell’84 e nel 1986. Il gioco cominciò a scompaginarsi con il tour del 1987, nel 1988 si tornò a una grande forma professionale, così nel 1994 e e altre annate del NET che non a caso sono state anche le sue migliori. Chi scrive lo preferisce così, anche se non ha certezza alcuna che dal prossimo tour si passerà a un nuovo approccio. Questo in fondo è sempre stato il bello di Dylan. il mistero. Certo un Dylan così rende alquanto inutile girare per il mondo e vedersi dozzine di concerti uno dopo l’altro, ed è anche questo un grande mito creatosi con il NET, anche se averlo visto a Milano tre sere di seguito fare gli stessi pezzi, con le eccezioni di cui prima, ha reso possibile entrare a fondo nella magia delle sue performance, capire particolari sfuggiti la prima sera, essere più consapevoli di quello che si è sentito ed essere conquistati maggiormente. Questo tour, il tour di “Tempest” – già così shakespeariano nella scelta del titolo -, è stato allora un evento straordinario: quando ce lo siamo trovato davanti, sembrava di assistere al Dylan lirico, intenso, quasi emulo di Elvis che era il Dylan del 78. Come dimenticare una esecuzione di lirismo assoluto come What Good Am I, o Tangled up in blue nella terza serata di Milano che pur con la voce rotta voleva ricordare quella fantasmagorica versione del 78? E naturalmente tutti, ma proprio tutti i pezzi di “Tempest”, così debordanti furia rock o introspezione folk. Lo preferiamo mille volte così che intento a scardinare una Poncho & Lefty (Dylan che fa Townes Van Zandt! wow) nell’89 con la chitarra scordata e la band che suona in altra tonalità. 

Tornando ai concerti di Roma, e alle tre sorprese milanesi, viene da pensare che Dylan abbia accolto le lamentele di tanti suoi fan italiani (il sottoscritto in primis) stufi di sentire scalette di scontati greatest hits: ha fatto quello che ha fatto molte volte in passato in città fortunate come Londra e New York, regalando finalmente al pubblico italiano quello che si meritava per la prima volta  e riconoscendo un particolare affetto nei suoi confronti. Ma tutto in questo tour è stato meditato e mai improvvisato: ha aspettato ad esempio a fare Roll On John una volta giunto in Inghilterra: ovviamente, visto che è una canzone dedicata a John Lennon. 

Un tour che resta dunque negli annali: l’eleganza straordinaria con cui Dylan si è mosso sul palco, l’orgogliosa figura che si ergeva nella semi oscurità sembrava il fantasma di Amleto o il Walt Whitman che lancia il suo barbarico “yawp” o ancora l’Allen Ginsberg che ci erge il il monito del suo “howl”. Accadeva quando si mostrava fieramente da solo davanti al microfono senza strumenti se non la sua fida armonica, ricordando la stessa eleganza di un altro ultra settantenne del rock, Leonard Cohen, anche lui come Dylan monaco rock degli abissi del cuore dell’uomo. E in quel momento in cui l’incontenibile chitarrista Charlie Sexton, apparentemente l’ultimo depositario di quel suono, di quell’Americanità sonica, si è inginocchiato davanti a Dylan al termine di un brano, evidentemente trasfigurato lui stesso da quello che quella potenza evocatrice aveva condiviso, è apparso chiaro che si era consumato anche per loro su quel palco lo stesso miracolo che stava consumandosi per il pubblico.

E’ un po’ come se questi grandi vecchi della musica fossero consapevoli della bellezza del dono che hanno ricevuto, quello del comunicare attraverso la musica la grandezza del mistero dell’esistenza, senza volersene impadronire, ma del mistero stesso farsene portavoci, con i suoi desideri, le sue ansie, le sue paure e i suoi tormenti, e volessero un’ultima volta dare al mondo tutta questa bellezza intera. Se Dylan negli ultimi anni era apparso come contorto e ripiegato su stesso, comunicando a fatica con gli spettatori, in questo tour è apparso orgogliosamente partecipe con i suoi spettatori di questa magia: l’ha gettata a piene mani fra di loro e ne ha raccolto il grido di meravigliato stupore che gli tornava indietro. Come quando a Milano si sono riconosciute le prime note di una inaspettata Visions of Johanna e invece degli usuali applausi o urla che si sentono a tutti i concerti, i duemila presenti hanno rilasciato un contemplativo “ooohh” di spontaneo stupore. 

Alla fine dell’ultimo concerto del tour, tenuto alla Royal Albert Hall, il più prestigioso teatro del Regno Unito, dove Dylan aveva suonato per l’ultima volta nel maggio 1966, si è avvicinato, cosa fatta assai raramente, alle prime file di spettatori per stringere loro le mani, lui che di solito si limita a fissare impassibile gli spettatori senza neanche fare un cenno di saluto. Un gesto di affettuosa disponibilità, ma anche un gesto che ha avuto il sapore del commiato. Su questo palco, nel 1966, Dylan avrebbe concluso un periodo immensamente straordinario, i suoi anni 60, in cui aveva scardinato e cambiato le regole della musica rock, con il pubblico che lo fischiava e lo insultava per essere stato troppo rock rispetto alle loro aspettative politically correct di quel periodo storico che preannunciava il 68. Sarebbe scomparso dai palcoscenici per i successivi otto anni. Qualcuno ha detto che anche questo è stato un addio, Dio non voglia, ma se lo è stato, è stato un addio e un abbraccio, di sincero rispetto reciproco. 

E’ una magia quella della musica nelle sue esibizioni più alte: d’altro canto che cosa possono aver commentato i fortunati che hanno potuto vedere Beethoven o Mozart esibirsi se non un commosso “ooohh” di stupore? Noi c’eravamo e quello stupore lo vogliamo conservare a lungo. Anche se fosse la fine di una storia che non ha paragoni nella cultura mondiale degli ultimi cinquant’anni.