L’immagine più forte che mi è rimasta del concerto de I Cani ai Magazzini Generali di Milano è questa: le due ragazze di fianco a me che non hanno mai guardato lo show ma sono state per tutto il tempo a riprendere col loro telefonino ciò che accadeva sul palco e a condividerlo su Facebook e Twitter. No, non sono uno stalker. E no, non mi interessa vedere cosa fa la gente di fianco a me. Erano semplicemente impossibili da ignorare. Allo stesso tempo fastidiose e irresistibili. Che poi è esattamente la stessa cosa che canta Niccolò Contessa, anima e mente ed I Cani quando dice che “Non c’è niente di twee tra di noi” e “Come sono disoneste le fotografie in cui siamo bellissimi e perdenti”.
Ma mi era già successo poco prima, mentre osservavo la lunga fila di persone in attesa fuori dal locale, rabbrividendo in una delle più fredde serate di questo inverno. Tanti ragazzi giovani, tantissime belle ragazze, tanti di loro agghindati da perfetti hipster che forse vanno al parco e leggono David Foster Wallace (tanto per rimanere nel tema dei testi di Niccolò) e che molto probabilmente non si sono mai accorti di essere i principali destinatari dell’ironia della band romana.
Perché I Cani fanno così, raccontano la quotidianità dei nostri tempi, la gente intrappolata dentro gesti e immagini che, invece di definire, riducono e appiattiscono. Tutti alla disperata ricerca di un po’ di “Glamour” (questo il titolo del nuovo disco) ma ridotti in definitiva ad assomigliare alla brutta copia di mille altri.
“Non mi commuovono le storie coi sensi di colpa, non mi interessa l’opinione di chi la sa lunga: io voglio raccontare e che mi si racconti, perché anche il poco che sappiamo è meglio di niente”. Questo cantano nell’introduzione al disco, in quella che è una vera e propria dichiarazione di intenti.
In effetti le sue sono canzoni talmente figlie del loro tempo, talmente circostanziate nella realtà del loro giovane autore, che probabilmente tra una decina d’anni, se ci troveremo a doverle riprendere in mano, potrebbero servire delle note a pié di pagina, esattamente come accade oggi per la Divina Commedia. Non è forse un paragone azzardato: dopotutto oggi potremmo anche non sapere esattamente chi fossero Francesca Malatesta o Ugolino della Gherardesca, eppure le loro vicende sono ormai state consegnate all’immortalità. Proprio perché parlano di cose che non passano mai di moda. Lo aveva detto lo stesso Niccolò in una delle sue prime interviste (dove era apparso molto più maturo e consapevole di quanto la sua età anagrafica avrebbe lasciato supporre): “Più racconti una realtà nel suo dettaglio, più riesci a parlare a tanta gente. Altrimenti dovrei dire che “Guerra e Pace” parla della Russia dell’Ottocento e non può dire nulla ad un italiano di oggi. Per comunicare bisogna far trasudare umanità, verità.”
Impossibile dargli torto. E si capisce dunque il perché di tutto questo pubblico, consapevolmente descritto, forse inconsapevolmente deriso: la certezza che quelle canzoni parlano di loro. Parlano di loro ma forse in qualche strano modo parlano anche di me, che ho superato da un pezzo l’età dei personaggi narrati. Sarà anche una coincidenza ma è interessante che prima dell’inizio del concerto io e alcuni amici fossimo tutti concentrati in una discussione sui romanzieri russi e americani. Anche questo, forse, suona un po’ “Hipsteria”.
Ma veniamo al dunque: i Magazzini Generali sono stracolmi, per quella che è la prima uscita milanese di “Glamour”. Un sold out annunciato alla vigilia e ampiamente rispettato, il segno più eloquente del fatto che I Cani sono davvero l’unico, autentico fenomeno italiano degli ultimi anni. Molto di più dei Baustelle (che pure hanno dato molto alla nostra scena rock), fosse anche perché sono più freschi e se la tirano di meno.
Questo secondo disco prosegue nel discorso del precedente ma è molto più interessante nell’uso dell’elettronica (merito del contributo di Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax, uno che in questo campo ci sa decisamente fare) e sembra aver risolto i problemi di immobilità nel songwriting che un po’ affliggevano il pur ottimo debut album di due anni fa. Detto in parole povere: i pezzi questa volta non suonano più tutti uguali.
L’ingresso dei quattro sul palco, dopo l’esibizione vivace ma poco consistente dei supporter “Testaintasca”, viene accolto da un boato assordante, manco fossimo a uno show degli One Direction. E come viene in mente ai nostri di presentarsi? “Buona sera, siamo I Cani da Roma e siamo la risposta agli One Direction”. Più eloquente di così…
Apertura affidata al singolo “Vera Nabokov”, modo migliore per introdurre il nuovo disco e dare inizio allo show. I suoni sono orribili, come consuetudine del locale: volumi alti e impasto sonoro confuso delle tastiere, voce che va e viene, con parole impossibili da distinguere. Malissimo, visto che i testi sono il loro punto di forza. In ogni caso, il tiro è notevole: dal vivo l’elemento elettronico è sempre presente (la maggior parte dei suoni sono riprodotti dal vivo con le tastiere) ma si arricchisce di una sezione ritmica basso/batteria che contribuisce a dare maggior dinamicità e impatto al tutto.
Già la successiva “Storia di un impiegato”, che cita il celebre disco di De Andrè per raccontare le annose vicissitudini di chi si trova ad aver a che fare con un lavoro “normale”, viene accompagnata da un pogo selvaggio e frenetico. Niente a che vedere con quello che succede dopo, all’attacco di “Hipsteria”, primo estratto dal disco precedente.
Insomma, un’atmosfera caldissima (fantastico il colpo d’occhio del locale gremito che ho avuto modo di cogliere dalla mia privilegiata posizione in balconata) che testimonia una perfetta interazione tra pubblico e artisti. Niccolò e compagni hanno da tempo rinunciato ai sacchetti di carta con cui si coprivano il volto durante le prime apparizioni. Adesso sono a viso scoperto e si rivelano per quello che sono: ragazzi semplici, look pulito ed anonimo. Gente come tutti, insomma, ma con un’attenzione al quotidiano e una capacità di descrizione ben superiore alla media.
Il set è finalmente di una durata accettabile, ora che i dischi all’attivo sono due e si presenta ben bilanciato: i brani nuovi vengono eseguiti tutti, compresa la vagamente baustelliana “Introduzione”, piazzata però all’inizio dei bis. Reazioni entusiastiche per tutti, sia alle cose più tirate come “Non c’è niente di twee”, sia alle rievocazioni malinconiche di “Corso Trieste” (“L’unica vera nostalgia che ho”, cantano in coro tutti i presenti, identificandosi alla perfezione con quell’esperienza che tutti abbiamo fatto almeno una volta nella vita, ripassando da grandi nei posti dove siamo cresciuti).
Come spesso accade però, sono i pezzi più datati ad essere accolti con maggior entusiasmo. Dalle acute e divertenti analisi “sociologiche” di “Le coppie” e “I pariolini di diciott’anni”, ai disincantati racconti autobiografici de “Il pranzo di Santo Stefano” e di “Post Punk” (durante la quale viene proiettata un’animazione della copertina di “Unknown Pleasures” dei Joy Division, giusto per rimanere in tema).
Il finale è comprensibilmente affidato a “Velleità”, la canzone che li ha lanciati e che più di tutte riassume la loro visione del mondo.
Se si poteva essere scettici all’inizio, col secondo disco I Cani hanno dimostrato di non essere una semplice meteora. Se aggiungiamo che ci sanno fare anche dal vivo, si può tranquillamente ammettere che tutti quelli che si sono accaparrati un biglietto per vederli, non hanno buttato via il proprio tempo. Se poi usassero le loro canzoni per capire dove ci stanno portando Twitter e telefonini, sarebbe già un gran passo. La risposta agli One Direction? Potrebbe anche non essere così.