“La fede e’ arte. L’arte di prendersi un enorme rischio”. Era il 2006 e queste parole le diceva Sufjan Steven, cantautore di Detroit, classe 75, eclettico nelle sue mescolanze di folk, roots-rock e ispirazioni inattese che vanno dall’elettronica a Bach. Chissà se questo musicista piuttosto quotato nell’ambito delle produzioni alternative, si riferiva a quell’operazione che avrebbe dato alle stampe di li a poco: i due enormi volumi di Songs for Christmas, un insieme di dieci cd registrati tra il 2005 e il 2010 contenenti circa ottanta canzoni che ruotano tutte attorno al tema del Natale.
Pazzoide quanto basta per dar vita ad un progetto del genere, Sufjan e’ un polistrumentista (suona di tutto, preferibilmente banjo, chitarra e oboe), di origine persiana, credente e inserito all’interno della vasta comunità metodista nordamericana. Il suo disco più bello è forse Seven sword, un prodotto del 2004 ricco di echi biblici ed evangelici, con canzoni come Abraham e The transfiguration (un piccolo capolavoro di poetica naive) esplicite nel loro modo di narrare i fatti della Bibbia senza ricadere artisticamente nella necessità di far proseliti che e’ propria della Christian music nord-americana. A far gara con questo album c’è anche Illinois, album che il Rolling Stones ha inserito tra i migliori del decennio scorso, triste e dolente racconto di un epoca di poche speranze e tante lacerazioni.
Ebbene: questo musicista, ricco di poetica, di sguardo religioso alle cose della vita e di vivace ricerca artistica, ad un certo punto si mette in azione per raccogliere una sorta di summa personale di canzoni natalizie. Si dirà: perchè l’ha fatto? Sua risposta: “pèrchè avevo bisogno io stesso di concentrarmi meglio su cosa significasse per me il Natale”.
Ed ecco allora i due box Songs for Christmas, archivi per una massa di musica impressionante: tantissime riletture di classici sacri (da Christ the Lord is Born, di Yanecek all’Ave Maria di Shubert, che nelle note di copertina viene presentata come un brano il cui testo e’ stato scritto “da Dio stesso”), inni della tradizione (da Amazing Grace a We Wish you a Merry Christmas), canti tradizionali americani (da Joy to the World a Santa Is Coming to Town), canzoni inattese eppure perfettamente inserite nella trama (da Alhabet street di Prince a Love Will Tear Us Apart dei Joy Division di Ian Curtis) e canzoni dello sesso Sufjan, filastrocche ripetute per pochi secondi, invece che inni di importante orchestrazione.
In questo folle opus, c’è una canzone inserita nel volume 8, The child with the star on his head. E’ un lungo pezzo (12 minuti) abbastanza sconclusionato, che parte rassicurante come fosse un pezzo di Dean Martin, si evolve a mezza distanza tra David Bowie e Beck, per poi prendere il volo come uno scherzo di Zappa prodotto dai Daft Punk. Musicalmente ebbro, poeticamente spiazzante:
Energia natalizia, energia positiva
Alla disperata ricerca di Babbo Natale
Potresti credere di capire più di tutti gli altri
Andando in giro nel buio battendo sul tuo bel tamburo
E il bambino con la stella sopra la testa
Tutto il mondo riposa sulle sue spalle
E la madre col bimbo in seno
È benedetta tra le donne
E la fede che riponiamo nelle cose,
Nelle piccole idee, nel congegnare
Il mondo degli sport e dei secondi classificati
Nelle conseguenze che non metteremo a tacere
Immagini di quotidianità, fotogrammi di vita, lungometraggi del nostro presente. E proprio li dentro, arriva la voce, quella voce, che invita, che suggerisce, che domanda, che accoglie…
Perché strisciare nella neve
Quando sai che sono qui,
In attesa che tu speri in qualcosa di più?
Perché sono amico,
Ti sto invitando alla mia tavola
Dove ho preparato il banchetto
Perché gli anni dei dolori sono passati
L’inverno porta con sé una canzone natalizia
Tutto il mondo sa che
Quando arriva Natale, i dolori cessano?
I dolori cessano?
Tante canzoni natalizie, da Elvis ai giorni nostri (Ramones compresi, quelli di Merry Christmas, I Dont want to Fight Tonite) prima o poi mettono del “buono” nell’arrangiamento del pezzo in questione. Sufjan, bontà sua, non si adegua e ci mette un gioco assurdo d’elettronica e campionature, di rumori e frequenze, di effetti percussivi su tappeti di tastiere e chitàrre, dando l’impressione di condurre chi ascolta dentro a un flipper nascosto nei saloni di una sala da slot machine. Ecco il Natale, una annoiante esperienza di contemporaneità, tra gilè invernali (“E per quando non sarà rimasto più nulla/ Un albero vuoto, un gilè invernale/Un gilè invernale, un gilè invernale”), odor di cucina e pacchi regalo, computer, telefonini, what’s-app, foto su feisbuk, atteggiamenti buoni, calendari e tutte quelle altre “piccole idee” in cui riponiamo fede. Ecco il Natale, giornata mediocre e banalotta, in cui ci auto-soddisfiamo di “tutta la fede che riponiamo nelle cose/ Nei dizionari, nell’ingegno/ Nei calendari e nella televisione/ Negli amici di papà, nelle conseguenze”.
Nessun brivido, in tutto questo sbadigliamento natalizio. Ed ecco invece un altro Natale, rischioso (per dirla con le prole iniziali del cantautore di Detroit), semplice e potente. Pensa un po’, sussurra Sufjan Stevens, accompagnato dai suoni del flipper, che questo e’ il giorno in cui nasce “il bambino con la stella sopra la testa/ Tutto il mondo riposa sulle sue spalle/ E la madre col bimbo in seno/ È benedetta tra le donne”. E’ li che si concentra il canto, il suono, lo sguardo, la speranza, la partitura dell’arte e della vita. Non il ricordo di un nuovo gilè invernale, ma un bambino con la stella sulla testa. Anche nel gioco bislacco della contemporaneità. Nel giorno sacro anche per la contemporaneità.