Enzo Jannacci fa fuori luoghi comuni, mezzi imbrogli e profittamenti vari anche post-mortem. Per dire. Un mese dopo la sua scomparsa, la Sony Music si era – per me un po’ sgradevolmente – affrettata a metter fuori una “Raccolta definitiva” (definitiva!?), dizione da titolo-lapide di un sarcofaghetto, pardon, cofanetto, con 60 successi del grande medico-artista, rigorosamente esclusi i capolavori successivi agli anni ’90. Ma come raccolta definitiva? Definitiva cosa? Più niente da dire, più niente da ascoltare? Niente da capire? Figuriamoci. Mica facile metterci una pietra (tombale) sopra a uno geniale imprevedibile e sempre nuovo come Jannacci. Una prova? L’opera postuma “L’artista”, recentemente uscita per la cura sapiente e amorosa del figlio Paolo e della annessa combriccola musicale, e impreziosita dalla partecipazione-omaggio (in play-back) al maestro di: Ligabue, Paolo Brosio, Emis Killa, Jovanotti, Fabri Fibra, Marracash, Ale e Franz, Gue Pequeno, Fedez, Jack La Furia, Zak, Max Pezzali, Dargen D’Amico, Caparezza, THG, Grido, Franco Godi e Tito Tolve. Costoro compaiono – ovviamente nella versione DVD – nell’inedita e sorprendente Desolato in cui la vena antica, la poetica ironico-dolorosa di Enzo si mostra capace di incontrarsi con naturalezza e fondersi con il rap di un J-Ax. E questo chi se lo sarebbe aspettato? Te lo do io il definitivo….
Desolato intreccia un geniale caleidoscopio di citazioni tratte da 50 anni di canzoni di Jannacci (denunce, ammonimenti, quasi-profezie) con la consapevolezza dello spropositato mare di bisogno che la vita rappata delle giovani generazioni oggi è, un mare che eccede la capacità di risposta: dunque “desolato se non trovo la risposta ai tuoi problemi”, mentre è pur vivo un io che non sta quieto (quel grido reiterato “non mi basta!) perché pre-sente la positività ultima di tutto”: “desolato se la vita a me piace ancora tanto”.
Certo, per capire certe cose Ci vuole orecchio (1980). E non si può chiudere gli occhi sul devasto del potere che ti taglia fuori: Ho visto un re (1968) come Jannacci e Fo, gli ho chiesto “Vengo anch’io” (lui mi ha detto No tu no (1968) ma c’è “uno tra voi che tra uno sputo e una spinta troverà un’altra penicillina, altre forme d’amore, forse un po’ più di grinta”(E allora… concerto, (1981) e finalmente “sarà ancora bello quando parla Gaber” (Se me lo dicevi prima, 1989)).
Altra grande novità di questo disco postumo è questa: che il genio della maturità ha abbracciato riletto e re-inciso diverse canzoni giovanili, alcune proposte già nel 1961 nell’ancora bindeggiante LP “Le canzoni di Enzo Jannacci” del 1961. Canzoni cosiddette “minori” (per intenderci El portava i scarp el tennis è del ’64) che in realtà il loro autore amava moltissimo e che non a caso erano state via via interpretate da grandi protagonisti della musica italiana come Mina, Milva, Tenco. Quest’ultima fatica jannacciana permette un ascolto nuovo, aiuta ad arrivare più al fondo umano delle cose che raccontano. Esse sono parte di una storia di tutti i tempi, una storia di povertà, come quella de L’artista, che dà il titolo al CD (“portarono i loro stracci in una soffitta vicino al ciel”). , Un amore da 50 lire (“in un ristorante economico, mangiando solo minestra, facendo a meno del vino, risparmiavo per starti vicino”), Il tassì (pieno di roba dimenticata, “due sospiri” e “tre illusioni” comprese, “spente insieme a un paio di mozziconi”, e che la sera “va a riposare , e ricordare, là in periferia dove la gente non va in tassì), Fermi a un passaggio a livello (“mi hai parlato di te in un modo che non conoscevo… ma all’improvviso è passato via il treno, abbiam smesso di parlarci, poi mi hai chiesto se era un merci”). Tutta roba del ’61. Ancora: del ’62 è Io che amo solo te di Sergio Endrigo, cui Enzo rende omaggio interpretandola; di pochi anni dopo, 1968, è Non finirà mai (l’amore che nel suo stesso stato nascente è vocazione ad esistere per sempre). Sono storie brevilinee di gente povera col cuore urgente che non smette di desiderare: non soldi, ma qualcosa di più grande.
– Altre storie riguardano l’essere figlio e l’essere padre: La sera che partì mio padre(1968), Maria me porten via (1970 – mi hanno arrestato ma non far sapere ai ragazzi che il loro papà l’hanno ammanettato come fosse un ladro) e Cosa importa (1981 – “la droga è un gioco, lo dicevi sempre, non mi ciulan mica e invece t’han ciulato proprio a te, a te che facevi il duro”). Come dire: essere padri implica essere figli. L’ha sottolineato recentemente Mario Dupuis, animatore della opera Edimar di Padova dedicata all’accoglienza e formazione al lavoro di giovani in difficoltà, in occasione della presentazione del libro di Antonio Polito, “Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli”. Polito ha detto che su questa storia del padre-figlio val la pena “lavorarci”: il Grande Enzo condividerebbe senz’altro.
Si tratta di temi solo apparentemente adolescenziali: attese desideri speranze sensi di sproporzione amori delusioni ribellioni nel racconto di Jannacci non sono fragilità del giovane ancora un po’ acerbo ma indizi certi delle dimensioni costitutive dell’uomo, cioè del suo essere incompiutezza e domanda. Altrimenti ragioneremmo, dio ce ne scampi, come quel Solone dei Soloni della critica letteraria italiana che è stato Natalino Sapegno. Il quale interpretò la geniale inquietudine del poeta di Recanati, cioè la sua poetica, come disagio psicologico da giovane sfigato, e per giunta un po’ ingobbito, rimasto tale anche da grande. Ci fu per fortuna, a metà degli anni 50 del secolo scorso, una voce che si levò umile e indomita a mostrare che le cose stavano ben diversamente: la voce arrochita e pur capace di vigorose impennate di un grande sacerdote brianzolo il quale da seminarista recitava il canto Alla sua donna come ringraziamento dopo la Comunione e, post mortem, è in lista d’attesa per la gloria degli altari.
– Ecco, analogamente, ciò che rende chiaro, anzi letteralmente illumina, il fondo delle canzoni proposte in questo CD di Jannacci, è il miracolo di una voce: la sua. La sua dell’ultima sofferente intensissima maturità di uomo e di artista. La sua che penetra fin dentro alle ossa come mai m’era accaduto in mezzo secolo di jannaccite acuta, E’ una voce di dolore, e di letizia che sul culmine di quel dolore discretamente accenna a fiorire; la senti che vien su indifesa e indomita dall’anima e dalle viscere del vecchio sofferente medico artista come partorita dall’intimità della terra, e dalla stessahumilitas della terra fatta a sua volta umile e perfettamente accordata a tutta la gamma di vibrazioni dell’umano. Perché “è dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente di un’opera che cresce” (E.Mounier), Ed ecco quella stessa voce trovare prodigiosamente nel proprio fondo energia e grinta per impennarsi delicatamente e dispiegarsi su in alto, quasi lasciandosi galleggiare in aria su timbri più nitidi e argentini, che suonano come una domanda affidata al cielo. Pensare che “hai cantato con dolori atroci – gli scrive Paolo sulla copertina del Cd – senza riuscire a stare in piedi e hai tirato fuori la più bella voce della tua carriera”.
Chiude il disco la quasi inedita Senza parole (reinterpretazione di un testo del 1987). Racconta di un mondo appiattito nel conformismo che non ha più niente da dire – Senza parole, appunto – in cui si direbbe con Eugenio Montale che “un imprevisto è la sola speranza”: “per fortuna c’è uno che stona, e come uno slogan vien fuori la luna”.
Stonato? Quando si dice una voce fuori dal coro… Raccolta definitiva un cazzo.
Ecco.
(Maurizio Vitali)