Alberto Radius è l’indiscusso caposcuola del convivio di quelle folli convergenze artistiche che hanno generato quello che – tra il serio e l’ironico – potrebbe andare sotto la denominazione aggiornata dei “diversamente battistiani”. Lo era già per certi versi Tony Cicco, compagno di avventure nella Formula 3, per la sua maniera malandrina di rivedere il Battisti più solare, lo era e ha continuato a esserlo quel Radius che tra notevole perizia chitarristica e inconfondibile vocalità brumosa ha dato vita a un secondo concepimento del grande cantautore laziale, una sorta di sua nuova generazione editata su scala di grigi.
Radius ne ha costituito una sua declinazione malinconica e disincantata ai limiti dello stato di rottura prolungata, una sua reincarnazione parallela in bilico tra inferni e purgatori esistenziali e una speranza che grida di dolore dall’ultima frazione di vita degli abissi.
Il 1973, ultima apparizione dell’originaria gloriosa Formula 3 ne diede un ampio suggerimento con il più alto colpo di genio all’interno dell’album “La Grande Casa”, quella “Rapsodia di Radius” che tra titolo scelto, superbe trame chitarristiche e variazioni dense di folle intuizione rappresentava nell’incipit lirico un vero e proprio biglietto da visita della visione esistenziale del musicista romano (grazie alla complicità di Mogol). “Cara non c’è posto per l’amore, tanto spazio e poi, l’uomo è un bambino che non sa pensare a se stesso, rabbia egoismo e libertà annegata in un fosso…”. Tutto questo andava a svilupparsi e definirsi negli anni cruciali della carriera solista del chitarrista nella seconda metà dei ’70 con tre dischi di grande spessore. “Che Cosa Sei”, “Carta Straccia”, “America Goodbye”, il primo ancora debitore di eredità battistiane, i due successivi dove l’originale concentrato lirico-musicale dell’opera di Radius prendeva forma e sostanza autonoma.
Canzoni oscure, sferzanti, scorbutiche, arrangiamenti odoranti di nebbie e snervante routine metropolitana, solismi di chitarra a completare i brani senza scavalcarli, testi ad assecondare l’atmosfera di quelle musiche grazie allo storico collaboratore Oscar Avogadro. In essi andava in scena la frantumazione talora ironica talora in forma d’invettiva di particolarismi e facili miti nessuno escluso, dall’ideologia, al rapporto di coppia, alla fiducia cieca nel dio progresso. Solo in seguito facevano capolino frammenti di riscatto umano raccolti in forma quasi calviniana (gli anni 80 di “Leggende”).
La storia recente vede tre soli album solisti in diciassette in anni, una ripresa massiccia dell’attività con la Formula 3, oltre ad una sempre intensa attività di produzione e arrangiamento. “Banca d’Italia” è il frutto maturo e pieno di un ritorno meditato a lungo e deciso al momento opportuno. La scomparsa del fedele collaboratore di sempre Avogadro che figura quale autore di sei testi (sotto il nome della moglie per questione di diritti), un nuovo e provvidenziale sodalizio inaugurato con due giovani autori di testi (Andrea Secci e Tullio Pizzorno), copertina e note di presentazione a cura di Red Ronnie.
L’esordio costituito dalla title track (grazie al riferimento sulla cover alle labbra in decomposizione e al barbone dormiente) vuole raffigurare una sorta di ritratto dell’Italia odierna. Su una musica di impronta country-folk di sole chitarre acustiche in veste ritmica e solista, Radius canta un testo scritto da Avogadro dodici anni fa dove si descrive in maniera schietta, quasi elementare, il crinale discendente – umano e politico – imboccato da tempo dal belpaese.
Il resto del disco – sviluppato essenzialmente a partire da spunti a detta dello stesso autore risalenti al periodo dei tre dischi cruciali della propria produzione – opziona e rimette a nuovo l’impatto dei temi musicali del Radius d’annata con una prevalenza per i mid-tempo. Ne risulta un lavoro di alto livello privo di sostanziali punti deboli in ciascuna della quindici canzoni che lo compongono.
Tra i vertici un Tango di Dedalo che vede in primo piano l’unico partner musicale di Radius nell’album – il tastierista Johnny Pozzi – che introduce il brano con un rapido preludio al piano di sapore chopiniano, praticamente un cenno tramutato da subito in una figurazione di tango dove Radius spazia felicemente rinvigorendo l’antico storytelling tra ritmica impaziente (risultato di un’accurata programmazione) e ironia sferzante del canto.
Faccio finta che ci sei è dal canto suo un tributo al compianto Avogadro chiamato letteralmente per nome e citato attraverso titoli storici del cantautore, in un brano più sostenuto che riassume le varie componenti della natura artigianale dell’ottimo sodalizio con Pozzi. Ritmica selezionata al millimetro anche nelle scansioni elettroniche, tastiere in funzione fluidificante, brillante e spasmodica chiusa di chitarra elettrica del nostro.
E ancora tra i solchi il Radius della nostalgia dolceamara di Dusseldorf, l’ispirato estensore di intime malinconie ultraurbane che Nell’universo mondo ritrovano l’antica complicità metrica di archi lirici in pressing continuo, il break quasi divertito di una fresca e canzonatoria Talent show, una sezione finale del disco che non lesina momenti di alto spessore. Si ascolti il giro reiterato di una rassegnata Dimmi chi ha vinto e una Piccoli amici che vede una splendida passata di spugna sull’indole riflessiva del miglior Radius impreziosita da un testo – forse il vertice artistico di Avogadro – che ripercorre tra il velato e l’enigmatico gli eterni dilemmi e conflitti tra le due metà del cielo (“non c’è pane nel forno, non c’è luce sul fondo … assaggiamo confusi di tutto il mistero una piccola dose”).
Chiude il tutto Come suona il tempo evocativa e intensa alla maniera dell’autore, quella di un’attesa dispersa in sterminate particelle di tempo ma tesa a sorprendere piccole grandi esplosioni di un senso nuovo nei suoi sussulti strani, angosciati e quasi disabitati.
Il ritorno di Radius – grande musica e versi provocatori – è quel piccolo grande prezioso contributo al ripopolarsi della vita che in quanto vita non si rassegna a dare ragione al vuoto dell’inesistenza.