In oltre 160 anni dalla prima rappresentazione di La Traviata alla Scala, Stéfane Lissner, sul punto (quasi) di lasciare la sovraintendenza e la direzione della fondazione, ha ‘osato’ portare il titolo all’apertura della stagione. Lisssner aveva effettuato un’operazione analoga nel 2003, portando l’opera al Festival di Aix en Provence, creato per celebrare Mozart negli Anni Cinquanta ma dalla metà degli Anni Novanta diretto anche all’innovazione. Allora La Traviata, programmata per dieci serate, ebbe solo una rappresentazione, a causa di scioperi che travagliarono tutto il settore in Francia; ero presente e devo ammettere che parte del pubblico restò scettico e perplesso (non ebbe modo di protestare perché il luogo era letteralmente preso d’assalto dagli scioperanti e si riuscì a malapena a concludere lo spettacolo). L’allestimento di Peter Mussbach situava la vicenda sotto il Ponte dell’Alma a Parigi: Violetta (Mireille Delunsch) era Lady Diana che prima di morire ricordava la propria tragica esistenza in un’Europa grottesca di inizio del XXI Secolo. Allora la messa in scena sollevò critiche (ammetto che a me piacque moltissimo come scrissi sul quotidiano di Milano a cui allora collaboravo. Da dieci anni si replica con successo alla Staatsoper di Berlino.



Si è ripetuto qualcosa di analogo la sera del 7 dicembre 2013 alla Scala? Ero alla fila K posto 1. Occorre dire che le proteste (all’allestimento scenico ed alla regia) sono state forse enfatizzate dai media. Tuttavia, credo sia bene partire dall’assunto che nonostante La Traviata sia una delle opere più eseguite del catalogo verdiano (l’ho vista , credo, una sessantina di volte), è anche una delle più difficili negli aspetti sia drammaturgici sia musicali. E’ lavoro impervio che viene erroneamente ritenuto facile e di gusto popolare. Le trappole nella partitura (dalla vocalità della protagonista che cambia da soprano di coloratura a soprano drammatico nel bel mezzo del secondo atto) alle difficoltà di ambientazione (Verdi la considerava e la voleva ‘contemporanea’ al pubblico ed alla ‘cultura’ sociale di quest’ultimo) non sono una ragione per non metterla in scena. Anzi dovrebbero indurre a esplorare nuove strade. Come ha fatto la squadra che l’ha messa in scena il 7 dicembre.



Un musicologo di rango, e senza peli sulla lingua, nel suo blog sotto pseudonimo ha correttamente scritto: “Chi  può rischiare di cantare Violetta alla Scala o in qualunque altro teatro che si rispetti, dopo la Callas? Per anni questo inutile veto ha in qualche modo castrato tutti, direttori, protagonisti – i registi meno – nell’atto di accingersi a proporre una Traviata, nei teatri di gran nome, e solo in quelli, per nostra fortuna, perché altrimenti della Traviata avremmo perduto ogni pur lieve traccia. E’accaduto, poi, che  alcuni teatri, sfidando lo spettro della  Callas, e noncuranti di quel divieto  più morale che vocale, abbiano portato in scena Traviata, come ha fatto e continua a farlo da dieci anni La Fenice, ad esempio, con la sua Traviata che inaugurò il teatro ricostruito proprio con il capolavoro di Verdi (Carsen/ Maazel – la protagonista nelle varie riproposte è cambiata, assieme al direttore, mentre è restato identico quello spettacolo, tuttora ammirato) e finalmente lo fa anche La Scala che per lavare l’onta di aver inaugurato l’anno verdiano (e wagneriano) con il Lohengrin, rimedia in questo 7 dicembre 2013 con Verdi  e la Traviata. E con una Violetta Valery, Diana Damrau di grande personalità vocale. 



Perciò pensiamo che una Traviata degna del teatro più importante del mondo si poteva fare anche prima, molto prima; e che si sia atteso troppo, dopo quella di Muti, per poter vedere in cartellone il popolare titolo verdiano. Personalmente non crediamo alla ricerca quasi miracolosa della protagonista come ci vogliono far credere ogni volta sovrintendenti e direttori artistici. Cercano Violetta come qualunque altra protagonista verdiana e non solo verdiana; non c’è bisogno che ci raccontino di storie avventurose:”… cinque anni fa la Damrau fece sapere che si stava preparando a Violetta e che avrebbe voluto farla alla Scala….. poi, poi il sogno si è avverato ed ecco che fra quest’anno ed il prossimo, una sola Violetta fa cinque produzioni – non saranno troppe, verrebbe da domandarsi, tutte ravvicinate, dopo tanto digiuno? Se non fosse già stata Damrau, chi l’avrebbe corteggiata per tanto tempo? Più interessante domandarsi se c’è qualcuno fra i nostri direttori artistici capace di trovare fra le tante brave cantanti una giovane cui affidare quel ruolo. Nutriamo seri dubbi, e non solo per Violetta”.

Ho riportato una lunga citazione di un commento scritto a caldo subito dopo la prima vista alla televisione perché essenzialmente concordo. Tuttavia, non è solo lo spettro di Callas che aleggia nella Sala del Piermarini quando si pensa all’opera verdiana. Vengono ovviamente in mente Tebaldi, Scotto , Theodossiou ed altre con la capacità di cambiare vocalità nel corso dello spettacolo. Operazione difficilissima e che può compromettere per sempre la voce, come è avvenuto, ad esempio, a Fabbricini e Gasdia. Tuttavia, i dissensi del loggione e non solo sono stati non contro la Damrau (che ha ricevuto ovazioni a scena aperta, ad esempio, dopo Addio del Passato) ma della giovane équipe russa (regia e scene di Dmitri Tcherniakov, costumi a Elena Zaytseva, le luci a Gleb Filschtinsky) una squadra innovativa di cui ho già visto varie messe in scena a Milano, Aix-en- Provence, a Salisburgo, a Berlino e a Monaco.
Una squadra anche nota per allestimenti trasgressivi e fortemente politici (si pensi al duro quadro della Russia di Putin mostrato, a Monaco, in Kovanschina di Mussorgsky che tratta della presa di potere di Pietro il Grande e dell’inizio del processo di europeizzazione dell’Impero). Parte del pubblico, verosimilmente, era prevenuta nei confronti di un allestimento ‘moderno’ e si aspettava un’ambientazione della seconda metà dell’Ottocento (come negli allestimenti di Visconti, Zeffirelli e Cavani) che per oltre quaranta anni si sono visti alla Scala. Un’altra si aspettava uno spettacolo più politico – non che la ‘politica’ mancasse nella produzione di Visconti- con una forte critica sociale alla borghesia e al capitalismo. Parte ancora pensava che La Traviata desse a Tcherniakov e soci l’opportunità di una produzione trasgressiva: a Napoli si è vista l’opera ambientata in una Istanbul piuttosto gay, a Bologna in una wellness center, a Stoccolma in un club di incontri e scambi di coppie dove Alfredo sfoggia elegantissimi mini-slip. Nulla di tutto ciò.

Nella versione di Tcherniakov e soci c’è solo una tragica storia d’amore di due giovani, senza riferimenti a eros, a sesso e men che meno a critica sociale e politica. E’ un lavoro fresco e davvero commovente – per questo è piaciuto ai giovani nella serata loro dedicata il 4 dicembre ; hanno sparso la voce e i cinema dove si proiettava in alta definizione erano (mi si dice) affollati da ragazzi. La Scala si è affidata alla bacchetta di Daniele Gatti e ad un cast vocale di livello per una versione filologica senza lo spurio ‘sovracuto’ al termine di Sempre Libera e l’esplosione orchestrale del finale in re bemolle minore ripetuto con insistenza. Forse le troppo versioni ‘spurie’ hanno portato parte del pubblico ad abituare l’orecchio ad una Traviata ad effetto, un po’ differente da quella composta da Verdi Diana Damrau, Mara Zampieri, Piotr Beczala, Željko Lucic hanno i ruoli principali A 43 anni, con vent’anni di palcoscenico sulle spalle Diana Damrau è una delle rare soprano che può affrontare i trabocchetti del ruolo. Si pensi che al National Theater di Monaco sostiene i quattro ruoli femminili (quattro vocalità differenti) in Les Contes de Hoffmann’ di Hoffenbach . Piotr Beczala canta la parte con successo da vari anni anche al Metropolitan. Si pensi che la nostra Mara Zampieri , un soprano drammatico che con gli anni , è passata a ruoli di mezzo soprano ha il piccolo ruolo di Annina , dopo era stata protagonista di molte opere verdiane. 
Con le repliche cresceranno gli apprezzamenti.