Il sold out dell’unica data italiana di Kristian Matsson, alias The Tallest Man On Earth, dice una cosa ben precisa: nel nostro paese, a dispetto delle polemiche (spesso e volentieri giustificate) sulla pigrizia degli ascoltatori, la carenza di strutture per suonare, il proliferare delle cover band, c’è un genere, il cosiddetto “indie folk” (ammesso che si possa chiamarlo così) che sicuramente non se la passa male. Tutto questo, a giudicare dalle reazioni entusiastiche alle recenti calate dei vari Bon Iver, Band of Horses, The Lumineers e, ovviamente, Mumford and Sons.
Tuttavia, non è così pacifico collocare The Tallest Man On Earth all’interno di questa etichetta. Il cantautore svedese, tre dischi e due ep all’attivo, è stata una delle rivelazioni del panorama del rock indipendente degli ultimi anni. Certo, il suo lavorare esclusivamente di voce e chitarra acustica potrebbe far tirare in ballo facilmente certe categorie ma lo spessore dei testi, l’abilità delle costruzioni armoniche, unitamente a una certa attitudine “drammatica” lo rende spesso lontano da certe cose, pur validissime, che negli anni hanno catturato soprattutto l’attenzione dei teenager.
Ragion per cui al Magnolia, locale tra i più attivi in Italia per la musica dal vivo, è presente un pubblico molto variegato per età. Certo, nella stagione invernale non si tratta proprio della venue ideale: un capannone lungo e stretto, con un palco bassissimo che impedisce quasi completamente la visione a chiunque non sia vicino ai due metri di altezza. Per di più, l’impressione è che questa sera siano stati venduti più biglietti rispetto ai posti effettivamente disponibili. L’affollamento è senza precedenti e quando, poco dopo le 23, il piccolo svedese fa il suo ingresso on stage, lo si capisce solo dalle urla della folla.
In realtà poi, almeno per il sottoscritto, le cose sono andate bene: trovata un’inattesa posizione defilata, riesco a godermi il concerto in maniera tutto sommato accettabile, eccezion fatta per il continuo disturbo arrecato da macchine fotografiche e telefonini vari. Quella di seguire i concerti attraverso uno schermo digitale è ormai divenuta una sorta di piaga sociale che sarebbe meglio ci si decidesse a considerare seriamente (da questo punto di vista, le recenti prese di posizione di artisti come Bob Dylan, Arcade Fire e Lumineers è senza dubbio significativa).
Entrando nel merito dell’esibizione però, non si può dire assolutamente nulla di negativo. Matsson è un performer eccezionale e ha dato vita ad un’ora e venti di spettacolo intenso e coinvolgente, che spiega perfettamente il notevole successo ottenuto un po’ dovunque in Europa.
Innanzitutto ha dalla sua le canzoni: un songwriting maturo sin dagli esordi, canzoni che, a modo loro, sono tutte degli autentici gioielli che denotano la spiccata personalità del suo autore. In molti lo hanno accostato a Bob Dylan e per certi versi il paragone può reggere: pezzi per chitarra e voce, un timbro vocale abbastanza simile a quello dell’artista del Minnesota. Eppure, le sue composizioni risultano più immediate e vicine al pop, impreziosite quasi sempre da un gran lavoro chitarristico.
Tutto questo, sul palco si è visto eccome. “L’uomo più alto del mondo” si muove su e giù per lo stage, pesta le corde come un dannato e suona da vero virtuoso, snocciolando un pezzo dietro l’altro come in una sorta di greatest hits e ringraziando in continuazione il pubblico per il suo calore e il suo entusiasmo.
Un concerto interamente acustico, chitarra e voce, è difficile da portare avanti ma l’energia sprigionata è stata tanta che in più di un’occasione si è avuta l’impressione di essere al cospetto di una band al completo e restare fermi era veramente difficile. Acustica pressoché perfetta (anche se il compito, trattandosi di un solo musicista, non era così difficile) che ha valorizzato in pieno sia la chitarra che la voce, dando alle canzoni una resa di molto superiore a quella dei lavori in studio, per altro penalizzati a mio parere da una produzione molto “lo fi”.
La scaletta, dicevamo, è andata a pescare a piene mani da tutto il repertorio di Matsson, senza privilegiare nessun disco in particolare (il vantaggio di non avere lavori in promozione!). Partenza a raffica con la hit “King of Spain”, ideale per accendere subito gli animi. Poi il seguito, con le varie “Love Is All”, “1904”, “Burden of Tomorrow”, “Wind and Walls”, “The Gardener” e altri titoli di sicuro valore. Il nostro eroe di canzoni non ne ha sbagliata nemmeno una, per adesso, per cui un pezzo piuttosto che un altro non ha fatto poi così tanta differenza. Nei bis arriva anche una suggestiva “The Dreamer”, dall’ep “Sometimes the Blues is Just a Passing Bird”, con Kristian che mette le mani avanti perché teme di non ricordarsela (in realtà poi la suona benissimo).
Finale tutto per la meravigliosa “The Wild Hunt”, cantata a squarciagola dai presenti e per una grande versione di “Graceland”, il brano più famoso del Paul Simon solista.
Concerto breve ma intenso, difficile lamentarsi. Ho sentito molti, all’uscita, commentare che sia durato troppo poco e francamente credo che, parlando di un uomo da solo sul palco con la sua chitarra, questo sia il complimento migliore.
Non sappiamo quando lo rivedremo: tra una battuta e l’altra, ha detto al pubblico milanese che quello del Magnolia sarebbe stato il suo penultimo concerto. “Sento il bisogno di scomparire per un po’ – ha spiegato – è l’unico modo per poter tornare con un po’ di nuova musica”. Se sarà bella come quella che abbiamo tra le mani, possiamo già prevedere un futuro di sicura ascesa. Di gente in grado di tenere in piedi uno show da solo, finora avevo visto solo un certo Bruce Springsteen e un certo Eddie Vedder. Scusate se è poco.