Ci sono rock band che radicano la propria storia dalle parti degli anni Sessanta, che hanno superato tragedie ed affanni della vita e che calcano il palco suonando a memoria e mettendo in scena un universo di sogni, suggestioni e suoni che i gruppi giovani possono solo immaginarsi. Non tutte, è naturale, le formazioni dal capello grigio ci riescono: molte sono ormai inutili ripetizioni, altre vivono solo di leggenda più o meno inutile. Il caso dei Little Feat, invero, è insolito. La band nata a New Orleans nel 1969 per merito di Lowell George e Bill Payne è sopravvissuta alla scomparsa improvvisa del band leader, ha ritrovato negli ultimi due decenni due il bandolo della matassa e riesce ad essere ancora in pista nonostante l’età media dei musicisti. Ed oggi, calcando ancora i palcoscenici del mondo, suona con il rilassamento dell’età, sciorinando il proprio passato con quel divertimento ironico e quasi dopolavoristico che portava ai tempi d’oro Lowell George – che per un certo breve periodo, ricordiamolo, ha militato nelle Mother of Invention – ad andare in scena con la salopette dei metalmeccanici.



Tra i tanti palchi del mondo, i Little Feat sono sbarcati per la seconda volta anche in Italia, nella campagna lombarda, trasformando il bellissimo teatro parrocchiale di Cologne in una hall della Louisiana, regalando una serata rock intensa, abbastanza viva da non esser troppo nostalgica e di ottima qualità. Il concerto lombardo, aperto dall’ottimo set di Fabrizio Poggi (armonicista pavese dall’animo americano e dall’ottimo feeling blues) ha messo in fila i classici del gruppo, da Fatman in the Bathtub a Rapresenting the Mambo. In versione live anche gli ultimissimi pezzi della band, da Rooster Rag a Church Falling Down, sono di buon impatto, soprattutto la seconda, acustico-nostalgica, con l’aggiunta del classico rock-blues di Mellow Down Easy, viscerale esempio di arrangiamento in Louisiana-blues. Ma in un concerto dei Little Feat le canzoni, i brani, sono solo un’opportunità, non un materiale già scritto. Arrangiamenti, lunghezze, solisti, introduzioni e citazioni da altri brani sono una possibilità sempre nuova nel più classico copione di chi adora la filosofia del jamming.



Nell’immenso mare delle dam band (che ha Grateful Dead e Allman come archetipi, e miriadi di recenti seguaci, dai Phish agli String Cheese Incident, dai Blues Traveler alla Dave Matthews Band, dagli Ekoostick Hookak ai Widespread Panic) Paul Barrere e compagni sono i migliori interpreti di un mélange sempre rilassato di suoni che vanno dal blues al cajun, dal jazz al dixieland, dal gospel al boogie. Mai troppo “rumorosi”, spesso romantici, i Little Feat raggiungono l’apice del loro feeling nostalgico con l’interpretazione di Willin’, una delle canzoni immortali del rock americano, racconto della dura vita dei trucker, i camionisti pronti a rimettersi alla guida del proprio bisonte su ruote in ogni condizione di vita personale, di tempo, di umore. Atmosfera sognante, parole da prateria, chitarra acustica e mandolino per un salto nel sud degli States: chi crede che quell’America esista ancora (visto che in effetti esiste davvero) se la ritrova tutta in questa canzone, cosi come in alcuni altri anthem del rock americano come Blue Sky oppure Can’t You See o anche Take it Easy.



Sui Little Feat musicisti c’è  poco da dire: l’accoppiata Fred Tackett-Paul Barrere alle chitarre è elegante, integrata alla perfezione e ben composita, Sam Clayton è una presenza colorata alle percussioni e alle voci (intrigantissimo su Spanish Moon), ma l’applauso più forte va a Bill Payne, uno dei più completi pianisti e tastieristi dell’universo rock. E’ lui che costruisce tappeti immensi che tengono dentro suggerimenti che vanno da Gershwin a Telonius Monk, che arrangia Dixie Chicken (che capolavoro!) fino a farla diventare una suite da oltre venti minuti, che s’ingegna a sopperire ai fiati presenti in alcuni grandi show visti e registrati al Jazz and Heritage Festival di New Orleans. E’ lui, produttore ma anche uomo di nuove tecnologie, che ha creato l’immagine on.-line della band e che ha scelto il sostituto di Ritchie Hayward (stroncato da un tumore) con Gabe Ford, che del grande batterista era il tecnico.

 Contando qualche hit non entrato nella scaletta della serata (Oh Atlanta, Texas Twister, Sailing Shoes, Apolitical Blues….) il finale trascinante della serata e’ esploso sulle note di Let it Roll, anche lei lunghissima e carica di suoni di slide elettrica, lo strumento perfetto dello stempiato e umile Barrere. Età media dell’audience: 50 anni. Invecchiare con il sound di New Orleans non è poi così male.