“Ho messo tra le cose da salvare…” cantava diversi anni fa Luca Barbarossa, cantautore di discreto successo ormai trasformatosi in consumato speaker e intrattenitore radiofonico. Tra le cose da salvare – almeno all’apparenza – per noi italiani, appassionati o meno di musica e costume, non c’è mai Sanremo, o meglio, il suo festival. Da giorni, ormai, imperversano le solite (e solide) frasi fatte e riciclate sulla bontà – o meglio, la sua assenza – delle proposte canore che ogni febbraio, immancabilmente, colonizzano digitali e satelliti, quasi fossero un prezzo (spesso troppo alto) da pagare alla sottocultura di origine italica, denominazione oltretutto più che controllata.
Capita anche di sentire affermazioni del tipo “il festival non è più quello di una volta”, oppure che “le canzoni con la manifestazione non c’entrano niente” e via dicendo, magari con l’accompagnamento di espressioni un po’ colorite. Se ci penso, però, sono le stesse esternazioni della prima e ultima ora che il mio udito ha fatto proprie da quando ho raggiunto l’età della ragione, o per essere più precisi da quando, più o meno trentacinque anni fa, ho iniziato a seguire il festival. Sì, perché fino a un certo periodo della mia vita il festival era un’occasione di ritrovo, discussione a scuola, sbeffeggiamenti vari a proposito dei propri e altrui gusti. Insomma, un evento, come penso sia stato un po’ per tutti, qualsiasi generazione inclusa, una solennità religiosa da celebrare anche da parte di chi non ci crede. Chi di noi non porta impressa la melodia di una canzone, chi di noi non ricorda un titolo, un episodio, una gaffe, un ospite di grido che ha trovato ospitalità sul palco della città dei fiori? Nessuno, secondo me.
È vero, il festival è cambiato, ma forse è ancor più vero che non è mai cambiato veramente. Se ci penso, oltre al fatto che i dischi non si vendono più (ma di questa nuova “abitudine” del consumatore nulla possiamo imputare a Sanremo), mi rendo conto che l’unica modifica a livello strutturale riguarda la selezione stessa delle canzoni, soprattutto dei più giovani. Un tempo la sezione nuove proposte era una promessa di novità e freschezza, che magari in molti casi si eclissavano nel giro di qualche ora, mentre in altri – pochi, ma sufficienti – prendevano letteralmente il volo. Penso innanzitutto a un certo Ramazzotti, che trasformò proprio a Sanremo una terra promessa in una storia importante. Oggi invece le nuove leve sono già state testate dai vari talent show e arrivano direttamente al traguardo senza passare dal via, magari del tutto prive di un briciolo di talento. È successo, in questi ultimi anni, e sono sicuro che succederà ancora. Ma ciò non toglie che sulla costa ligure siano rappresentate, ogni anno e senza soluzione di continuità, alcune delle peculiarità tipicamente italiane: di valore o no, nei testi delle canzoni sono spesso sublimate paure e incertezze, speranze e delusioni del momento storico in questione. Magari Cristicchi non sarà Dylan (certo, non lo è e lo sappiamo bene), ma non è escluso che in qualche verso della sua canzone l’italiano, giovane o meno, si ritrovi, in qualche modo. È successo in passato e sono sicuro che succederà ancora.
Perché sì, di belle cose dal tanto biasimato festival ne sono uscite. Senza scomodare il blu di Modugno o le avventure di Battisti – appartenenti a epoche ormai lontane che non ho vissuto – Sanremo è sempre stato in qualche modo un crocevia di destini, successi, e purtroppo anche tragedie. Ha lanciato carriere, le ha battezzate, le ha aiutate a crescere, ha rimesso il vestito a tanti artisti ormai spogli di creatività e successo. Il tutto ovviamente legato a una qualità media che nel suo insieme mostra gli stessi limiti della nostra cultura, musicale in prima battuta. Ma questa è un’altra storia, in questi giorni senz’altro sulla bocca di tutti.
È vero, i cosiddetti “grandi nomi” sono sempre mancati, soprattutto dagli anni settanta, da quando cioè la tradizione cantautorale – genere che in Italia ha trovato una sua proporzione di alto livello – ha avuto vita propria rispetto al palco del festival. Spesso i maestri del genere hanno partecipato come autori o come ospiti, ma mai come concorrenti in gara, con pochissime eccezioni, tra le quali ricordo la partecipazione di Pooh (1990), Riccardo Cocciante (1991), e quella recentissima di Roberto Vecchioni (2011), tutti ovviamente vincitori delle rispettive edizioni (e tutti con brani non proprio tra i migliori del loro repertorio).
Ma le vere sorprese sono sempre arrivate dal “basso”. Era il 1978 – in effetti il primo festival che ricordo – quando un impacciato e timido Rino Gaetano si presentò sul palco del teatro Ariston con tuba nera, frac, papillon bianco, maglietta a righe bianche e rosse e scarpe da ginnastica. La sua Gianna, irriverente e scanzonata, fu la vera sorpresa di quell’edizione insieme al punk aggressivo e scatenato di una giovanissima Anna Oxa, che con la sua Un’emozione da poco (scritta peraltro da Ivano Fossati) fece breccia nel pubblico imbellettato riscuotendo un grande successo. E come dimenticare, l’anno dopo, quel geniaccio di Franco Fanigliulo – sfortunatissimo talento, un po’ come Gaetano – e la sua A me mi piace vivere alla grande, che ebbe problemi con la censura ma arrivò dritta al cuore della gente. Nel 1980 la sorpresa furono invece i Decibel, che con la loro Contessa spianarono la strada a Enrico Ruggeri, che si aggiudicherà per ben due volte il primo posto sul podio sanremese, anche se le sue canzoni più belle in terra ligure saranno Nuovo swing(1984) e Rien ne va plus (1986), quest’ultima una ballatona che in qualche modo disegnerà per sempre il suo stile.
Un fulmine a ciel sereno fu Per Elisa – canzone che si aggiudicò l’edizione del 1981 –, la cui interprete Alice (all’anagrafe Carla Bissi) si trovava ormai a un punto morto della sua carriera. L’incontro con Battiato e la sua voce potente e mascolina le permisero di abbattere le barriere dell’anonimato, spianandole la strada di un successo importante negli anni a venire. Nello stesso anno proprio lui, lo speaker Luca Barbarossa, debuttò sul palco dell’Ariston con un brano delizioso, Roma spogliata, un country all’italiana che descriveva la capitale con disincanto e poesia. Di Barbarossa è da menzionare soprattutto L’amore rubato (edizione 1988), che trattava il delicato tema della violenza sessuale sulle donne, una canzone molto ispirata e sentita, attualissima (purtroppo) ancora oggi e al tempo in grado di sfatare il mito di “canzone poco sanremese”, etichetta preferita dagli illuminati dell’ultim’ora secondo i quali un testo non poteva discostarsi dalla rima (appunto baciata) “cuore/amore”, magari con “dolore” in stand-by.
Il 1982 è invece un anno topico: il ciclone Vasco Rossi sorprende tutti (ci aveva già provato l’anno prima, senza successo), con la sua Vita spericolata, canzone forse tra le migliori mai uscite dal festival. Memorabile la sua performance: il Vasco nazionale abbandona il palco e lascia al playback la parte finale della canzone…
Ma le belle cose sono tante, ed è difficile elencarle tutte, per una che torna in mente ce ne sono decine che si sgomitano in lista d’attesa. Tra le tante c’è anche Zucchero, che deve più di qualcosa all’Ariston: dopo aver tentato la fortuna, sempre a Sanremo, nei primi anni ottanta, nel 1985 arriva finalmente la consacrazione conDonne (che comunque si classifica al penultimo posto, come Vasco due anni prima): è l’inizio di una tra le carriere più rosee per un artista italiano, uno dei migliori talenti di casa nostra. Che dire poi del surrealismo deIl Garibaldi innamorato di Sergio Caputo, dell’intimo folk cantautorale di Rosanna (Nino Buonocore), della new wave in salsa italiana di Radioclima e Cose veloci (Garbo), del ritratto dolce e poetico di Nina (Mario Castelnuovo, cantautore sottovalutatissimo), della straordinaria Mia Martini (Almeno tu nell’universo, canzone suprema), della carriera di Renato Zero che rinasce (Spalle al muro, e qui siamo già nei novanta), del lirismo dipinto di tradizione di Spunta la luna dal monte (Pierangelo Bertoli e Tazenda), delle Maledette malelingue di Ivan Graziani (anche in questo caso una rinfrescata alla carriera, purtroppo spezzata prematuramente di lì a poco), del Signor Tenente di Giorgio Faletti, fino al rilancio di Ron con la delicata Vorrei incontrarti fra cent’anni.
Da qui in poi i ricordi si annebbiano, forse ci sarebbe bisogno di un’altra penna e un’altra generazione. Perché senz’altro, negli ultimi vent’anni, di canzoni interessanti ce ne sono state.
L’ultima cosa bella che ricordo (ma veramente è la prima) continua ancora a emozionarmi, quando ci ripenso: 20 febbraio 1996, prima serata, non c’è stata sigla e Pippo Baudo non è sul palco a presentare. Arriva invece un tipo, un americano, con chitarra e armonica, che inizia a cantare di grande depressione, Tom Joad e compagnia bella. Un colpo al cuore incredibile. Anche questo è successo a Sanremo. Nella speranza che fra una ventina d’anni, un giovanotto di oggi scriva di quanto fossero belle le canzoni di Almamegretta e Marta sui Tubi dell’edizione 2013.
(David Nieri)