Nick Cave è tornato, dodici anni dopo l’ultima volta. Verrebbe da dire così, dopo l’ascolto di “Push the sky away”, sedicesima prova in studio assieme ai Bad Seeds. Nel 2001 usciva “No more shall we part”, per chi scrive l’ultimo disco dell’artista australiano che fosse davvero degno del livello immenso a cui ci aveva abituato negli anni. Erano poi arrivati lavori scialbi e sdolcinati (“Nocturama”), gradevoli ma privi di sussulto (la doppia release “Abbatoir Blues/The Lyre of Orpheus”), decisamente brutti, se non addirittura inascoltabili (“Dig Lazarus Dig”). Successivamente c’erano stati i due dischi realizzati assieme ai Grinderman, fragorosi, chiassosi e volutamente eccessivi. A tratti anche notevoli, se non fosse che erano lontani anni luce dalla proposta dei Bad Seeds.  Solamente le colonne sonore firmate assieme al fido Warren Ellis erano in grado di fornire sprazzi di luce dai quali si era capito che il suo genio avrebbe ancora potuto trovare la forza di risvegliarsi. 



Come da copione infatti, l’uscita di “Push the sky away”, rimette clamorosamente le cose a posto. Clamorosamente è dire poco, perché nessuno si sarebbe mai aspettato che Nick Cave avrebbe potuto realizzare ancora un lavoro su questo livello. Anche perché, fatto non da poco, i Bad Seeds avevano perso per strada pezzi importanti. Blixa Bargeld non è più della partita da diverso tempo, ma la recente defezione dell’altro chitarrista e membro fondatore Mick Harvey, proprio non lasciava ben sperare e non poteva essere per nulla compensata dal ritorno (non si è capito se in pianta stabile o solo per il tour) di Barry Adamson, bassista storico dei primi tre dischi. 



Le aspettative, per lo meno quelle del sottoscritto, non erano alte. E invece, accantonate le sonorità rock e le sovrabbondanze di “Dig Lazarus Dig”, lasciate da parte le sfuriate elettro-blues che avevano caratterizzato il suono dei Grinderman, Nick Cave è tornato all’essenziale e ha realizzato un disco dai suoni rarefatti, quasi minimali. 

Un disco che riporta in primo piano la sua voce, che torna a narrare e a declamare come solo il “Re Inchiostro” dei tempi che furono era in grado di fare, una manciata di canzoni in cui torna a fare il crooner come nei giorni migliori, quelli che lo avevano consacrato grandioso continuatore della tradizione di Johnny Cash e Leonard Cohen. 



L’attacco di “We no Who U R”, con quel pianoforte che batte inesorabile a segnare il tempo, ci richiama alla mente un pezzo simbolo come “Red right hand” mentre la voce declama che “All’albero non importa cosa canti l’uccello” e che “Andiamo giù con la rugiada nella luce del mattino” ma che “Non c’è bisogno di perdonare ancora”. Un pezzo maiuscolo, in grado da solo di spazzare via tutti i dubbi. 

Tutto il disco vive di melodie tristi, di atmosfere sospese e a tratti quasi eteree, come del resto bene illustra la copertina che ritrae Cave all’interno della sua casa di Brighton, intento (così sembra) a mostrare la via dell’uscita ad una fanciulla nuda e dall’aria impaurita. 

Non ci sono le deflagrazioni strumentali e i rumori disturbanti di “From her to eternity” o “The firstborn is dead”, ma neanche la malvagità quasi compiaciuta del capolavoro “Murder Ballads”. Siamo piuttosto dalle parti di “The good son”, “Let love in” e soprattutto “The boatman’s call”, che avevano mostrato il lato più melodico e cantautorale dell’artista australiano.  Dire se la qualità artistica sia la stessa è impossibile, considerando che ce l’abbiamo tra le mani da così pochi giorni. Certo è che ballate come “Wide lovely eyes” o “Jubilee Street” sono di una bellezza e di una intensità commovente e rimettono in primo piano quel suo modo tipico di raccontare la figura femminile, in perenne bilico tra attributi angelici e tratti sensuali che portano alla perdizione. Il sacro e il profano si incontrano spesso in questo disco, come del resto in tutti i suoi lavori meglio riusciti. Tipico di un uomo che ha vissuto mille esperienze, che ha giocato con le droghe e ha visto in faccia l’inferno; un uomo che, al pari di altri grandi artisti come Bob Dylan o Leonard Cohen, ha trovato nella Bibbia più di una fonte di ispirazione. E così non ci sorprendiamo quando in “Mermaids” canta che crede in Dio ma anche nelle sirene e che “credo nello stupro perché ho visto il tuo volto, sul pavimento dell’oceano, in fondo all’onda”. Altra ballata riuscitissima questa, non pianistica come suo solito ma con le chitarre in primo piano e le tastiere a fare da riempitivo nella strofa, prima che una batteria e una chitarra acustica entrino discrete ad accompagnare il ritornello. 

Poi ci sono momenti in cui il violino di Warren Ellis si erge a protagonista e con poche note disegna quelle atmosfere sinistre e anche un po’ inquietanti che sono un po’ il marchio di fabbrica delle cose migliori dei Bad Seeds. “Water’s edge”, da questo punto di vista, è un capolavoro assoluto, con basso e violino che sottolineano un racconto in cui “le ragazze del Campidoglio” e “i ragazzi del posto” intrecciano timidi corteggiamenti ai bordi dell’acqua, “dove le pietre incontrano il mare” mentre un io narranteosserva distaccato “il brivido dell’amore” e avverte che inesorabilmente “tu diventi vecchio e diventi freddo”. 

“We real cool” si muove sugli stessi territori, con la sezione di archi molto più presente, ed è un altro straordinario momento di intensità d’ispirazione.

Il vero highlight del disco è però “Higgs Boson Blues”: un brano lento e ipnotico, un blues oscuro costruito attorno ad una sola manciata di accordi, che vive di una progressiva crescita di intensità. La voce di Cave è qui a livelli vertiginosi di espressività, per una storia che sembra riprendere le atmosfere di brani come “Halleluja”, “Oh Lord” o addirittura della “Highlands” di Dylan; un viaggio allucinante e allucinato che si muove tra Ginevra e Memphis e dove affiorano i fantasmi di Robert Johnson (ovviamente in compagnia del diavolo), di Hannah Montana e della stessa Miley Cyrus. 

E’ alla title track che spetta il compito di chiudere le danze: eterea, quasi impalpabile, le sole tastiere accompagnano una voce che sembra quasi volere rimetterci a sedere, dopo il pulsante crescendo del brano precedente. Una ballata per certi versi differente da quello che è il suo classico trademark (fosse anche perché mancano sia il pianoforte che la chitarra).

Alla fine non è così chiaro cosa voglia dire l’espressione “To push the sky away”; ma che si tratti di spingere in là il cielo per superare il proprio limite o che si voglia allontanarlo per paura della morte, risulta inequivocabile la dichiarazione d’intenti di un artista che non è bollito come molti incominciavano a dire. 

“Sono da solo, adesso – canta alla fine di “Jubilee Street” – sono senza recriminazioni. Sono in trasformazione, sto vibrando, sto brillando, sto volando, guardatemi adesso.” Lo guarderemo, eccome se lo guarderemo! L’11 luglio sarà a Lucca per l’unica data italiana del suo nuovo tour. Sarà un’ottima occasione anche per saggiare la resa dei nuovi pezzi: in queste prime date li sta suonando tutti, uno dopo l’altro. Ulteriore segno che anche lui sia ben convinto che è da qui che parte la strada della rinascita.