Parliamo di buona musica, parliamo di “Rosario” l’ultimo album dei Sacri Cuori, la formazione aperta che gravita intorno ad Antonio Gramentieri (fondatore nonché addetto alle corde), Diego Sapignoli (batterista e percussionista), Francesco Giampaoli (bassista) e Christian Ravaglioli (che chiamarlo polistrumentista è poco), musicisti con retroterra diversissimi, dalla musica classica al jazz, al folk, al liscio nelle grandi orchestre. Nel loro sound si miscelano folk, blues, psichedelia, visioni cinematografiche e ambientali. Va detto, c’è chi si scervella su un testo in cerca di rime sdrucciolevoli/scivolose ed è convinto che il pezzo si regga perché contiene accozzaglie improbabili di parole, c’è chi si va ad impelagare tra le note nel tentativo disperato di trovare una melodia nuova rimanendo attorcigliato ed è convinto di aver costruito con impalcature complesse il pezzo del secolo (tal Stefano Belisari, e orchestra, ci ha regalato una chicca in merito) e c’è chi fa musica. Musica che, quando è bella, è bella anche senza parole. Digressione vendicativa. “I Dire Straits sono da macchina, come gli Stadio” mi spiegava un piccolo ras di provincia “cacci su la cassetta, smetti di ascoltarli, ci parli sopra, poi ti rimetti ad ascoltare e di fatto non ti sei perso nulla. ”Rosario” è assolutamente da ascoltare anche in macchina, possibilmente lungo le strade secondarie romagnole, o in autostrada, ma non è una distrazione e non puoi distrarti… non riesci a smettere di ascoltare. Perché c’è dentro la nostalgia di un luogo in cui non sei mai stato, probabilmente causa limiti temporali (incompatibilità temporale?), e in cui a tutti i costi vorresti infilarti ascoltando il disco, o che dopo aver sentito il disco cerchi di infilare tu in tutti i luoghi. Del resto la musica se ne frega altamente dell’incompatibilità temporale. Se non è il momento giusto lo crea lei. Anche questo è il potere dei pezzi strumentali. Perché i Sacri Cuori fanno pezzi strumentali. Cosa sono i pezzi strumentali? Belle canzoni senza le parole. Ma quelle non sono le colonne sonore? C’è colonna sonora e colonna sonora, c’è una colonna sonora che va bene per Forrest Gump, bellissima, ma va bene solo per lui, invece c’è una musica che può essere anche la tua colonna sonora. C’è una bella differenza.



È vero, i pezzi di Rosario possono essere concepiti, e percepiti, come colonne sonore di film, ma io li sento più come colonne sonore di paesaggi, di luoghi, di viaggi, di case. Questo forse nasce dal fatto che i Sacri Cuori sono composti da una generazione di quarantenni che prova a ragionare sulla propria identità e in quest’ultimo album lo ha fatto a Los Angeles, lontano da casa. Los Angeles quindi, così come c’è molto David Lynch nelle visioni che l’album evoca e da cui è evocato, c’è anche molto John Fante che proprio a Los Angeles sviscera la questione dell’identità americana di un non americano. Non a caso quindi la scelta di registrare “Rosario” in una città californiana dal nome spagnolo, città in cui ci sono un sacco di non americani che si interrogano proprio sulla propria identità e nel caso dei Sacri Cuori c’è anche una identità musicale magari idealmente americana ma non americana d’origine.



I Sacri Cuori hanno tanti luoghi in cui affondano le proprie radici, luoghi geograficamente anche distanti, luoghi talvolta ideali perché magari sono film o libri, luoghi che li hanno resi capaci di fare musica internazionale con una identità propria. Per anni hanno cercato di capire se funzionava una musica internazionale provando a farla loro e alla fine la loro esperienza è che quello che sta funzionando così bene in Italia e all’estero è “Rosario”, ovvero quello che hanno fatto loro, la musica che rispecchia loro, le loro identità.



Nei pezzi di “Rosario” ci sono richiami e nostalgie di luoghi e ricordi magari anche non loro. Antonio Gramentieri mi ha detto una sera: Non importa dove sei, avrai sempre nostalgia di un posto in cui non sei ancora stato.E c’è una quieta inquietudine nel loro non essere mai fermi.

I Sacri Cuori non si fermano, sono in continuo movimento, in tour, non si siedono, viaggiando incontrano altri musicisti, ci suonano insieme, e magari con alcuni di loro ci fanno anche un disco, “Rosario”, in cui si trovano infatti musicisti come Jim Keltner (Stones, Dylan, Beatles), David Hidalgo (Los Lobos), Isobel Campbell, John Convertino (Calexico), Stephen McCarthy (Long Ryders) e JD Foster (Green on Red, Richmond Fontaine). Devo confessare che dopo aver sentito “Rosario” ho sentito l’urgenza di andare a trovare i Sacri Cuori dal vivo, esperienza che va fatta, anche perché suonare dal vivo a loro piace proprio. Come in “Rosario” si ritrova un bel gruppo allargato di grandi musicisti, collaborazioni consolidate e/o estemporanee. Una goduria per loro (e si sente) e una goduria per chi ascolta. Ah, poi ovviamente dal vivo due parole le aggiungono, giusto per raccontare da dove nasce la canzone.

Le mie preferite al momento (ma i pezzi son tutti belli): la psichedelica Silver Dollar, la ninnananna delle quattro di mattina Garret, West cui si lega meravigliosamente Where we left (che sembra quasi dirmi “non dormire ancora, aspetta un attimo”), poi Garret, East che invece mi culla di nuovo in un dolce sogno/veglia. Adoro anche Fortuna (sarà perché mi manca e il pezzo sembra darmi speranza?). Concludendo. Come riassumere Rosario? I Sacri Cuori sono un camino acceso in una vecchia casa in collina dopo una passeggiata al freddo, sono il primo sorso di birra gelata in un giorno afoso, sono la serranda del vecchio dancing che chiude poco prima dell’alba quando i musicisti han caricato il furgone e sono incerti se tornare dritti a casa o fermarsi a mangiare un bombolone caldo appena fatto.