I Clannad (letterlamente dal gaelico “an clann as Dobhar”, ossia la famiglia originaria di Dore) sono nati all’inizio degli ann i’70 in una grande, sterminata famiglia irlandese dove tre di loro hanno dato inizio a questa grande avventura. Due stirpi in un grande pezzo di storia d’Irlanda. Quella dei Brennan e quella dei Duggan. Moya Brennan sorella maggiore primogenita del nucleo con i due fratelli Pòl e Ciàran (tutti a loro volta fratelli della più giovane e celebre Enya) e due zii gemelli di pochi anni più vecchi – Noel e Padraig Duggan – si sono trovati coinvolti in questa esperienza di musica e vita prendendosi, perdendosi e infine ritrovandosi. Dalle vicissitudini tormentate della giovane Moya al girovagare dell’anima inquieta e creativa di Pòl. E in mezzo il paradosso di quella scalata a ritroso nel passato, nella tradizione che vive e non si rassegna alle pagine sbiadite di un libro consumato, monumento d’epoche passate e ormai indistinte. L’antica musica irlandese, quella dei cosiddetti traditonals tramandata attraverso la pura trascrizione di testi e manoscritti senza il supporto di registrazioni più o meno recenti.
Sul palco del Teatro CTM di Rezzato a ridosso del capoluogo bresciano è andata in scena il 20 febbraio questa grande epopea di vite e di cuori tormentati, derelitti, famelici. Sulla scia dello splendido DVD celebrativo di una carriera “Christ Church Cathedral” che cattura una splendida esibizione dal vivo della band all’inizio del 2011 nella celeberrima cattedrale di Dublino, è partito un lungo giro di concerti tra l’America e l’Europa che è si è concluso proprio in quel del teatro che ha ospitato la performance. Oggi come ieri e come nel passato più remoto il cuore della rappresentazione è costituito da quel vastissimo patrimonio folk declinato nelle maniere più svariate, dalla danza gioiosa alla marcia liberatoria alla ballata pura e intima, tutte con il comune denominatore di un’essenzialità strumentale che richiama un quadro prevalentemente impressionista – pieno di silenzi tra le note – talora arricchito da pennellate multicolore.
In questo senso i Clannad rappresentano l’altra faccia della stessa medaglia degli altri grandi d’Irlanda, i Chieftains, più legati all’avventura delle grandi orchestre popolari, alle origini del rock’n’roll e dello street folk, generatori di quelle esperienze di compromesso tra vecchia Europa e slancio americano, non ultima quella di un Glen Hansard. I Brennan incarnano invece quel volto precedente alle migrazioni e colluso man mano con i vagiti etno-naturalisti della world music e l’eroismo leggendario e popolare di estrazione tolkieniana.
E così le canzoni, i brani, i pezzi musicali si identificano in una convivenza fisica più che in una denominazione tanto appaiono ardui da immagazzinare nella memoria titoli per la maggior parte in lingua gaelica. Ore 21 e con puntualità che spacca il secondo si parte con Na Buachaillí Álainn dall’album “Fuaim” del 1982, l’unico che ha visto la presenza in formazione di Enya come membro effettivo. Il mantello sonoro è un ricorrente movimento di arpa e chitarre dai richiami antichi ed eterni, l’incedere è un mid-tempo felice e incalzante che invita ad un lungo e appassionante viaggio.
Crann Ull (Apple Tree) è la dolce, soffice e lucente ballata irish che esibisce l’afflato vocale di una Moya che richiama le grandi e feconde maternità d’Irlanda nelle figure di umili e semplici lavoratori del quotidiano e altrettanto fanno la danza gioiosa e straripante di Two Sister o quella forsennata di A Mhiurnìn O’.
Con Eleanor Plunkett/Fairly Shot of Her lo show non si fa mancare neppure le classiche ballate strumentali ipnotiche, dolcemente ossessive a lenta lievitazione e con tanto di accelerazione finale, ma è nelle aree di continua e reciproca contaminazione che si svelano quegli scenari inediti e stimolanti per i quali i Brennan di sono resi famosi come compositori in proprio.
La grande distesa eroica di sole voci di Mhaire Bruineall o le spartizioni vocali supportate da grandi accordi d’organo di Mhorag’s Na Horo Gheallaidh sviluppano ambientazioni che vanno a collocarsi tra saghe popolari e Tolkien, cosi come uno dei grandi classici di loro pugno Newgrange (da “Magical Ring” del 1983) richiama direttamente quelle fughe misteriose verso esistenze e tentazioni dominate dal simbolo dell’anello. E conSomething to Believe In, la celeberrima In a Lifetime e Closer to Your Heart c’è spazio anche per quelle atmosfere che tra gli anni 80 e i 90’ hanno lambito il mainstream giocato con gusto sulla scia dell’Oldfield diMoonlight Shadow. Per non parlare della sacralità da ritratto in bianco e nero della non meno famosa Theme From Harry’s Game e degli scorci intrepidi sulle wild lands di I Will Find You.
Ma è forse in quelle rivisitazioni delle arie tradizionali nel senso estensivo del termine che la band riesce ad imprimere quel quid di inedito e unico inscritto nel DNA e nel codice profondo di qualsiasi grande ensemble musicale che si rispetti. Robin of Sherwood Medley, la ricchezza armonico-strumentale della dilatata Dulamane quella più scarna e rootsy di Níl Sé’n Lá. E dentro tutto questo il soffio vocale terso e inviolato di Moya. il tocco gentile della sua arpa, l’acuta essenzialità del contrabbassista Ciaràn e l’input creativo eclettico di Pòl autentico fantasista del suono conteso tra flauti, chitarre, tastiere fino alla non meno importante abnegazione vigile dei gemelli Duggan.
Con loro due grandi compagni d’avventura. Certo non c’è più il grande Mel Collins in veste di superlativo fiatista supplementare, ma anche la ritmica tosta del batterista Ged Lynch e la vivacità cromatica dello storico tastierista Ian Parker aumentano in maniera considerevole proprietà e intimo linguaggio del suono.
Nel finale due diverse maniere di fare festa e rendersi festa agli altri. Lo scherzo bucolico di Teidhir Abhaile Riú e il canto nostalgico, lineare e profondo di Down by the Sally Gardens.
L’entità umana e artistica Clannad ci riporta a sua volta all’eterna questione del senso dell’entità famiglia. Come parola gremita di umanità non può che ripartire da realtà che diano spettacolo di sé come possibilità di bellezza e rinascita per loro stessi e per tutti noi. Solo un amore così può rendere ragione di quella grande promessa del cuore che porta a scavare nella pietra dura senza garanzia che al sudore e alla fatica di una costruzione faccia riscontro un amore pieno o tantomeno corrisposto. La durezza di un’esperienza che si scopre fragile davanti alla precarietà di un segno anche grandioso o che più spesso deve rassegnarsi all’apparente assenza di qualsiasi segno.
Quelle dei vecchi ragazzi di Donegal sono forse un minimo comun denominatore di tante nostre esistenze. Vite che si incrociano senza mai incontrarsi nel profondo, che giocano a ridosso una delle altre destinate all’eterna incomprensione eppure immuni all’ultima resa del traguardo raggiunto e irripetibile o di quello mai avvicinato. Vite spezzate ma con lo sguardo, il respiro e il cuore ben puntati a quel luogo d’incanto mai visitato, conosciuto o neppure sfiorato.