Non resta molto da dire, o da scrivere, rispetto a quanto sia stato già detto o scritto negli oltre trent’anni che ci separano da questo sublime capolavoro. Sappiamo che litigavano, e di brutto. Sappiamo anche che si consolavano, spesso con l’aiuto di dosi massicce di polvere bianca, tanto per non farsi mancare niente. Delusioni, d’amore prima di tutto, due coppie scoppiate e tanta acredine, magari da stemperare in un accordo, una melodia, una canzone. Certo, che questo equilibrio precario rivoluzionasse le coordinate della pop music nessuno, tantomeno loro, lo avrebbe mai immaginato. Anche se le fondamenta del miracolo erano già state gettate, un paio di anni prima, con un album che aveva lasciato intravedere ampi margini di miglioramento e un successo in costruzione.
Il destino, tutta colpa – o merito, in questo caso – del destino. Un destino che aveva fatto incontrare strade all’apparenza diverse, per non dire opposte, portandole dritte alle porte del paradiso. La storia, in breve, ci racconta questo.
Verso la metà degli anni settanta i Fleetwood Mac, un gruppo ormai in cerca d’autore dopo le varie defaillance personali e artistiche dei componenti della line-up – il chitarrista Peter Green in primis –, sono allo sbando. Dopo i primi successi in patria (sono inglesi) alla fine dei sessanta grazie a un blues di scuola Chicago che ben si adatta all’esportazione in terra americana, è arrivato il momento di decidere se andare avanti o porre fine all’avventura. Le prime avvisaglie pop ci sono già state, il sound è meno radicale e le aperture chiaramente intuibili, ma mai fino a questo punto.
Nel lontano 1974 il batterista Mick Fleetwood si trova negli States, in California, e in un certo senso è in fase di reclutamento del personale quando gli capita di ascoltare un brano, Frozen Love, durante una visita ai Sound City Studios di Los Angeles. Ne rimane impressionato, ma ciò che più lo colpisce è il virtuosismo del chitarrista, un certo Lindsey Buckingham. Il brano è tratto da un album registrato in coppia dal titolo Buckingham Nicks, uscito l’anno precedente e passato quasi del tutto inosservato. È una raccolta di gioellini in chiave pop proposti da un sodalizio – personale e artistico – che sta preparando il secondo album, nella speranza di ottenere un minimo di visibilità. Fleetwood cerca Buckingham, lo trova e gli propone di entrare a far parte del suo gruppo ormai in panne. Ok, dice lui, ma dovrà esserci anche lei, la mia fidanzata Stevie (Nicks, appunto). Mick tentenna, si confronta con gli altri due membri rimasti, John e Christine McVie (anche loro una coppia), e dopo aver valutato pro e contro decide di correre il rischio, facendo un bene alla musica tutta e all’umanità intera. Per inciso, devo purtroppo constatare che ad oggi quell’album – il principio, la prima fiamma, l’origine di tutto –, e cioè Buckingham Nicks, non è mai stato pubblicato ufficialmente su cd, un sacrilegio se si considera che di questi tempi viene ristampato di tutto, anche dischi considerati seminali per vari generi ma realmente di scarso valore artistico. That’s life, anyway.
La nuova avventura inizia ufficialmente nel 1975, con l’album delle promesse da mantenere, l’omonimoFleetwood Mac, che sancisce il trasferimento del gruppo dalla natia Inghilterra al sole della California, terra di appartenenza dei nuovi acquisti. Ci finiscono dentro alcune canzoni che i due fidanzatini, belli some il sole e con la valigia piena zeppa di talento, avevano preparato per il secondo album. Lindsey, si sa, oltre a un abile songwriter è un chitarrista eccezionale, e il suo fingerpicking a ragnatela esplode in tutta la sua virtuosistica intensità. Stevie Nicks, per contro, ha una voce straordinariamente particolare, riconoscibile a migliaia di chilometri di distanza, calda, intensa, sofferta, e non finisce qui: sa pure scrivere canzoni, e che canzoni…
Ma nel gruppo c’è un’altra autrice, proprio in quel periodo al massimo della sua ispirazione, Christine McVie, che suona anche le tastiere. Mick Fleetwood e John McVie sono due grandissimi musicisti, il primo tra i pochi in grado di far cantare la batteria pur picchiandola duramente, il secondo un efficacissimo bassista metronomo. Metteteci poi che dopo il primo disco le due coppie si sfaldano e si azzuffano, con Stevie che inizia una relazione con Mick, pure lui in fase di divorzio dalla moglie, e il gioco è fatto. Lo stesso titolo dell’album,Rumours, uscito nel febbraio del 1977, richiama le voci di corridoio e i pettegolezzi che circolavano a proposito di queste drammatiche separazioni, tensioni che comunque alla fine si rivelano un valore aggiunto, generando testi che esplorano l’attualità dolorosa di cuori infranti che cercano rifugio altrove.
“I know there’s nothing to say / someone has taken my place” sono i primi versi di Second Hand News, la canzone di Buckingham che apre le danze, mentre Stevie gli risponde subito per le rime con Dreams (Now here you go again / You say you want your freedom / Well who am I to keep you down), che verrà pubblicata anche come singolo. Christine guarda invece avanti nell’immensa Don’t Stop, che consiglia di volgere lo sguardo a un futuro già alle porte, mentre il passato ormai è morto e sepolto, ma Lindsey non si dà pace e invita Stevie a fare le sue scelte e ad andare per la sua strada (nella splendida e trascinante Go Your Own Way): canzoni che ogni appassionato di musica conosce alla perfezione – gli oltre quaranta milioni di copie vendute in tutto il mondo sono lì a dimostrarlo –, un vero e proprio passaporto per le stelle. Non c’è un pezzo da buttare, non un colpo a vuoto, tutto è magia in purezza, da stemperare nel tempo come uno scotch whisky full proof, un classico immortale. Pop, certamente, perché no? Furono in molti, dopo la svolta, a rimpiangere il periodo blues e ad accusarli di essersi venduti al mainstream. Ma furono molti di più coloro che apprezzarono, e parecchio, le nuove melodie trascinanti e sensuali in grado di deliziare palati fini, consumatori compulsivi e fischiettatori dell’ultim’ora. Impresa ardua per qualsiasi musicista, perché riuscire a proporre pop di qualità è la cosa più difficile al mondo. “Non vedo cosa ci sia di bello nel fare musica per tre persone” ha confessato Tom Petty qualche anno fa in un’intervista, e se lo dice uno come lui bisogna crederci.
L’edizione del trentacinquesimo anniversario – anche se gli anni sarebbero trentasei – propone l’album originale sul primo cd, con l’aggiunta di Silver Springs, un brano fantastico scaturito dalla penna della Nicks non incluso nel 33 giri originale ma relegato a b-side del primo singolo, Go Your Own Way, con tanto di reazione rabbiosa dell’autrice, comprensibilissima. Al suo posto fu inserito un altro brano di Stevie cantato in coppia con Lindsey, I Don’t Want to Know, dalla melodia gradevole e orecchiabile, ma se si pensa che una canzone come Silver Springs al tempo rimase fuori ci rendiamo conto della qualità altissima del materiale che usciva da Sausalito – location californiana sede della maggior parte delle session di registrazione –, neanche fossimo tornati all’epoca di Lennon-McCartney… Christine è in grande spolvero, e oltre a Don’t Stop proponeSongbird, You Make Loving Fun (entrambe dedicate al nuovo compagno, per la gioia di John McVie) e Oh Daddy, omaggio al vero collante del gruppo, Mick Fleetwood, che in qualche modo tiene su la baracca. Di Buckingham invece Never Going Back Again, che risalta il suo abile arpeggio, mentre il disco si chiude con la sofferta Gold Dust Woman di Stevie, analisi in chiave confessionale della triste e dolorosa dipendenza dalla cocaina.
Il secondo cd comprende 12 tracce live finora inedite risalenti al tour che seguì l’album nel 1977 (registrate tra Oklahoma, Tennessee e South Carolina), utilissime per capire come i Fleetwood fossero forze della natura anche dal vivo (una lunga versione di Rhiannon, dal primo album della svolta, merita attenzione), mentre il terzo è intitolato “More from the Recording Sessions”, tanto per differenziare la presente deluxe rispetto a quella uscita nel 2004, che già proponeva alcune demo e versioni alternative (ma diverse da queste), tracce utilissime per comprendere appieno la capacità di Buckingham, arrangiatore di prim’ordine, nel rivestire scheletri e bozze di canzoni, che diventeranno quello che poi sono diventate. Anche in questa scaletta non mancano motivi di interesse: Planets of the Universe, che all’epoca rimase fuori, sarà ripresa dalla Nicks nel suo album solista Trouble in Shangri-La, uscito molti anni dopo, nel 2001, e diventerà un successo. Belle le versioni strumentali di Never Going Back Again (di questo brano è presente anche un duet Buckingham-Nicks) e Songbird, ma il viaggio più affascinante nel mare di queste canzoni in embrione porta alla scoperta della gestazione, lunga e difficile, di The Chain, unica traccia dell’album originale accreditata a tutti i componenti del gruppo. Solo un indizio, poi scoprirete il perché: c’era una volta una canzone della McVie (Keep Me There) che non convinceva…
The Chain rappresenta il punto focale dell’album, un brano anomalo e affascinante che distilla stili e influenze dei Mac: posizionate il lettore al minuto 3.05, quanto parte il basso di John McVie, e lasciatevi trascinare fino alla fine. In quel breve spazio temporale c’è tutta l’essenza della musica. Il resto, ormai, è storia.
Nel resto della storia ci saranno un altro capolavoro (Tusk, due anni dopo) e tante altre gemme, fino ad arrivare ai giorni nostri: l’anno 2013 li vedrà infatti in tour – ma non in Italia, purtroppo –, pur senza Christine, e forse ci regalerà anche un altro album di inediti. Alcune canzoni sono già pronte…
(David Nieri)